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“Room” di Lenny Abrahamson si inserisce ampiamente nel genere cinematografico claustrofobico e catacombale, agganciandosi ad una certa letteratura noir o di “cronaca nera”, al pari della drammatica storia autobiografica raccontata da Jaycee Dugard in “Una vita rubata” (Edizioni Piemme). V’è una sorta di doppio tempo. Nel primo l’angosciante azione scenica si svolge interamente in un pertugio dove vive da sette anni “Ma” (interpretata dal Premio Oscar come miglior attrice protagonista Brie Larson), di cui gli ultimi cinque in compagnia del figlio Jack (l’inquietante bambino da volto efebico i cui panni sono ricoperti dal bravo Jacob Tramblay). Il mondo di Jack è “stanza” e attraverso la televisione scorge una immaginifica realtà, per lui invero inesistente, perché oltre le mura non v’è nulla.Il secondo tempo, dopo una surreale liberazione dal carceriere-stupratore, segue un superficiale narrazione della vita fuori, tracciata da una improbabile intervista con una giornalista particolarmente sgradevole, da rarefatti e algidi rapporti affettivi familiari i cui caratteri non sono per nulla investigati dall’Autore del film. La reazione del bambino - cresciuto in uno spazio angusto come fosse una sorta di prosecuzione del ventre materno - nel suo improvviso accesso in un mondo immenso e reale, è debole, quasi a-emozionale, priva degli attacchi di panico agorafobici che ci si aspetterebbe in queste situazioni. Il giovane fanciullo prova soltanto un poco di disagio e timore. Interessante il richiamo mitologico a Sansone quando Jack pensa di possedere forza nei propri capelli. Il primo piano al romanzo di Lewis Carroll "Alice's Adventures in Wonderland" evoca simbolismi che non sono riuscito, però, a decifrare.Peccato! Una occasione mancata.Fabrizio Giulimondi