Magazine Cinema
Ennesimo filmetto indie americano, che sembra confezionato appositamente per il Sundance. Se l'idea di partenza - quella di una madre e un figlio rinchiusi da anni all'interno di una stanza - era assai stimolante sulla carta, la regia non riesce nemmeno per un attimo a "sentire" il film e i suoi personaggi. Certo, quella del bambino non è claustrofobia, piuttosto un'infantile, immaginifica forma di claustrofilia, ma per metà film Abrahmson non è in grado di farci percepire il luogo fisico, di insistere sul legame tra spazio e personaggi (grave per quello che è, in gran parte, un vero e proprio kammerspiel). Tutta la messa in scena pare assolutamente illustrativa, priva di potenza, guizzi, di uno sguardo in grado di supportare un soggetto del genere. E quando finalmente usciamo fuori dalla stanza (e vorremmo ricominciare a respirare), "Room" si chiude ancora di più. Non c'è ossigeno, non c'è meraviglia, non c'è sorpresa: per consegnarci la visione virginale di un bambino che vede il mondo per la prima volta, Abrahmson realizza al massimo delle soggettive sfocate, depotenziando completamente qualsiasi epifania. Incapace di calarsi ad altezza-occhi di un bambino, lascia il sense of wonder alla parola, attribuendo la poetica del film alla voice over del piccolo protagonista. Una volta "nel mondo" (anche se questo mondo hai la sensazione che non arrivi mai veramente) "Room" devia, si blocca, scivola verso la retorica più fastidiosa, incerto com'è su quale direzione prendere. Arranca semplicemente, appiattendosi nell'opacità delle sue immagini.
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