Rosa Salvia: lo sguardo di Demetra

Da Narcyso

I primi testi “appuntati” da Rosa Salvia ci dicono dell’esigenza di un pensiero forte, quasi perentorio, rispetto alle sorti della parola:

Mi sta a cuore la trasparenza dell’aria.

È dolce raccoglierla come la porzione

estrema di un destino comune…

Voci (…) oltre la vacuità delle apparenze…

Duro è morire,

ma mille volte più duro è vedere

l’insania distruggere

cieca

ciò che la sorte ci diede in dono:

la parola ormai incapace

di dire

la vera vita del pensiero…

Mi sembrano le riflessioni migliori di questo libro, a luce fredda – svolte anche con una certa innocenza – sulle sorti della parola: parola/natura, “nuda di tutto e di se stessa”, contrapposta a parola/artificio; parola formula, luogo d’accoglienza delle istanze dell’umano, “argentea coppa”, “un movimento d’acqua cui è stata/ data forma,/ un diagramma,/ (…) È armonia dei contrari,/ alchimia della somiglianza”. Perchè, oltre questo calice, “il pensiero muore,/ e tuttavia resta incorrotto/ come un animale pietrificato”.

E ancora: “Corre, corre,/ la forma della sorte,/ stordisce il rumore del tempo/ e mi trascina con sé nella corsa”… come a dire che il destino, non diversamente dalle forme dell’arte, si costituisce per una casualità che si dà, essa stessa, forma. La parola, dunque, è forma della natura.

Per Rosa Salvia, allora,   la poesia “travasa”. Essa, probabilmente, è caravanserraglio, più che un vertice. È come la vita, “rottura del cordone ombelicale” che lega le creature all’ “eccelsa legge/ della volta stellata”, “fuori dal grande alveo materno”.

Queste poesie, insomma, mi sembra si nutrano di un sentimento di accoglienza, di una natura di radice/luce, dell’ essere in forma di fiori che sbocciano venendo da un segreto:

Voglia di trasparenza

carezza, sorriso, luce,

Voglia d’innocenza

pietra, dolore, pace -

amica silentia  lunae.

 

Ed è, quindi, poesia d’amore, soprattutto nella seconda parte, meridionale e floreale, tra l’ombra e la luce che accompagnano il di/venire. Ricorrenti sono, infatti, i fiori, il viaggio, il sangue, Pasqua di resurrezione, “la doglianza del mondo”; il desiderio di essere “una creatura che vede” per “respirare la notte”. In sintonia, dunque, col vestito funereo di Demetra che ha  perduto il figlio.

Così  il fascino  liberty si proclama nella natura dei colori accecanti, sorvegliati dalle radici oscure, dalle cantine della casa.

Sebastiano Aglieco

*

Solo per me?

No, anche per lui.

Solo per noi due?

No, anche per gli altri.

Ci struggeremo, vivi con i vivi.

**

La parola è un’argentea coppa:

intatti, precisi gli attimi

si posano -

è un movimento d’acqua cui è stata

data forma,

un diagramma,

un disegno d’aria sottile -

È armonia di contrari,

alchimia della somiglianza -

Oltre il pensiero muore,

e tuttavia resta incorrotto

come un animale pietrificato, o meglio,

come il cristallo

corpo luminoso che brilla,

fermo orizzonte dell’immagine,

all’incrocio del tempo e dell’eterno,

enigma del vero.

***

Cammino in un ronzio di versi

verso la casa di Simone, Cristina,

Emily ed Antonia, creature vive

nel cerchio della sorte

Uccelli d’anima che incidono

il pensiero

piegato al vento sacro della bellezza

Voci

su dal macigno, su dal sonno,

brivido nella radice e nelle foglie,

come nella tragedia antica la presenza

del coro che morde, avverte,

illumina, consola,

oltre la vacuità delle apparenze.

****

Nel bianco, cinereo giorno

del giudizio,

nulla chiedono i visi che vedi,

chini come i rami del salice

agghiacciante,

Nulla, né le mani di pietra,

o le strade, né un pugno di terra nelle palme

vuote,

né le braccia nude degli alberi

protese al cielo

come preghiere inascoltate,

o la casa

che compone i brandelli dell’anima,

il saluto di pianto per l’ultimo addio.

Nulla.

Non credono al giudizio.

*****

Mi sono svegliata con questa testa di marmo

fra le mani che mi sfinisce i gomiti

nè so dove poggiarla.

I miei occhi: nè aperti, nè chiusi,

la mia bocca: in procinto di parlare

poco, reggo gli zigomi che bucano la pelle.

Non reggo più,

gocciola il respiro come un filo di sangue,

anche se in cielo le ultime rondini,

guizzando d’aria felici,

sanno di miracolo.

Non reggo più questo mondo che c’incalza

dentro la furia della sua agonia,

questo mondo di umori vischiosi che colano misteri,

questo mondo di maschere di fango,

rassegnate a rimanere sorridenti o aggrondate

per sempre,

chiuse nella loro vanità,

che s’inquietano facilmente

se tu le denudi.

******

Spira il vento e non dà frescura -

le piante si mutano in molluschi,

l’arenaria si sbriciola,

 un gabbiano morde il fumo coll’ala

e s’inabissa,

una biscia strisciante lecca l’acqua -

all’ombra d’uno scoglio vaneggio,

qui può stancarsi la malinconia

perchè mi sono dispersa e il mio grido

s’agghiaccia nella calura estiva,

mi conduce come un fuoco fatuo

in cale senza via d’uscita.

Adagio, verso il mare, una madre

col bambino al petto

sventola il pareo bianco della sposa.

Tra il mio viso e il suo viso quella forma

di bimbo tenera si profila e si cancella.

*******

ANCORA MAX

Il mio figlietto interiore

abita in me,

nel rumore del vento che

scompiglia i miei capelli,

nel cigolio di una porta che

si apre,

nel fragore d’un piatto che

si rompe -

e anche se evito i luoghi che

traboccano della sua memoria

e passeggio in strade ignote

al suo nasino famelico di odori

e dico: “non c’è traccia, qui, di lui,”

rimango

   frastornata

   a ricordarlo.


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