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Rosarno: le arance non cadono dal cielo

Creato il 12 ottobre 2013 da Rodolfo Monacelli @CorrettaInforma

A Rosarno l’ennesima meteora mediatica che ha scosso l’opinione pubblica

Rosarno Rosarno: le arance non cadono dal cielo

Dopo la tragedia di Lampedusa proponiamo quest’articolo sugli eventi di Rosarno di due anni fa. A dimostrazione che il le tragedie legate al “problema immigrazionenon possono essere scoperte oggi e  non ci si può lavare la coscienza affermando “Io non sapevo”. Buona lettura.

La Redazione

Le arance non cadono dal cielo” è uno slogan di uno striscione che è stato affisso davanti al Ministero dell’Agricoltura a Roma da un centinaio di braccianti africani di Rosarno, il 7 gennaio 2011 dopo un anno dalla cosiddetta “Rivolta degli immigrati” di Rosarno, avvenuta tra il 7 e il 9 gennaio 2010, e i media tacciono.

La parola immigrato, da un punto di vista morfologico, appartiene a più categorie: è un sostantivo, un aggettivo e infine anche il participio passato del verbo immigrare. Con quest’ultima categoria abbiamo la possibilità di ragionare sull’elemento temporale, che ci aiuta a far emergere alcune questioni. Il participio passato concorre alla formazione di tempi verbali che si usano per riferirsi a un’azione o a un evento compiuto. Questo concetto è in linea con la definizione del termine immigrato presente in molti dizionari: l’immigrato è colui che si è trasferito in un paese diverso da quello d’origine, specialmente per trovare lavoro. Il lemma immigrato è quindi una parola che definisce una fase di transizione o spostamento per diversi fini, compreso quello lavorativo. Alla luce di questo, è completo riferirsi ancora con il seguente termine a chi, superata la fase di transizione, ha trovato un lavoro di qualsiasi natura pur non essendo totalmente in regola, secondo la vigente normativa sull’immigrazione?

Per cercare di sviluppare la questione, bisogna chiarire che, per la definizione di questi soggetti da parte della collettività, è comunque necessario avvalersi di termini che tendano a semplificare il processo di socializzazione della loro immagine. Nonostante questo, se si ricorre troppo spesso a queste semplificazioni per spiegare al pubblico cosa è successo a Rosarno, si rischia di trascurare una serie di dimensioni che sono fondamentali per comprendere meglio la natura della protesta. In questo caso, la questione lavorativa non ha avuto la rilevanza mediatica che le spettava. La maggior parte dei media e dei rappresentanti delle nostre istituzioni politiche si è focalizzata da una parte sulla violenza delle azioni commesse durante la contestazione, dall’altra sulla discussione bipartisan della xenofobia. Temi che fanno leva su alcuni bisogni e paure di stampo populista come il bisogno di sicurezza e di ordine pubblico, uniti a un’eccessiva evidenziazione della loro diversità di matrice culturale.

Queste argomentazioni non devono essere negate per partito preso, perché comunque rappresentano una parte di realtà, ma vanno discusse adattandole alla situazione sociale di riferimento.

Siamo a Rosarno, paese in cui la questione dello sfruttamento dei braccianti e delle relative proteste risale già agli anni 1950 – 1970. A quei tempi furono le raccoglitrici di olive a battersi per ottenere delle condizioni lavorative migliori. Gli unici frutti raccolti dalle proteste rimasero le solite olive, fatta eccezione per le 5000/7000 braccianti false che ricevettero un’indennità di disoccupazione, unita ai contributi europei per l’agricoltura ottenuti per produzioni inesistenti. Tuttavia, arrivano gli anni di apertura delle frontiere (1980), ed ecco il miracolo. La città di Rosarno ospita i primi immigrati provenienti dall’Africa centrale come braccianti a basso costo per l’agricoltura, in tutti i sensi possibili. Tutto questo è perfettamente in linea con un trend che, a partire proprio da quegli anni, descrive la perdita di valore del lavoro materiale a favore del lavoro immateriale. Questo fenomeno non può che tradursi in pratica con una minore tutela dei diritti lavorativi, in un campo che comunque continua a mantenere un’importanza basilare e inalienabile per la produzione del famigerato capitale. Se questa è la nostra cornice di riferimento, chi meglio degli immigrati si può adattare a questa domanda di manodopera?

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Il nostro paese nei confronti di questi individui, che si trovano sospesi sulla soglia della legalità/illegalità, assume le sembianze di un Giano Bifronte. Da un punto di vista istituzionale, li annebbia e li incanta con una fanfara pubblica di vari colori e opinioni, in merito alla concessione e al riconoscimento dei diritti umani e politici che, secondo alcuni accordi internazionali siglati in passato, dovrebbero già appartenergli. Ovviamente stiamo parlando dei diritti umani e non assolutamente degli spinosi diritti politici. Passiamo ora alla seconda faccia che, per un ragionamento dialettico, non può che rappresentare la negazione della precedente. Con questo giro di parole vogliamo riferirci a quella parte di potere che da sempre si esercita a un livello sommerso, attraverso organizzazioni, quali la mafia e le lobby d’interesse, che ormai da molti anni sono state definite “lo Stato nello Stato”. Questa seconda faccia incarna i tanto scomodi rapporti di forza e potere, che oggi si fatica sempre più a tenere nascosti. Malgrado ciò si possono comunque mettere in secondo piano, se si è abili nel focalizzare l’attenzione del pubblico su alcuni temi che esercitano una suggestione collettiva maggiore.

Il tipo di settore lavorativo implicato nella vicenda di Rosarno è uno dei tanti contesti in cui queste forze agiscono, dando vita a un potere succedaneo a quello istituzionale che risponde benissimo ad una nuova esigenza portata avanti in questi ultimi anni dalle istituzioni, pubbliche e private. Mi spiego meglio, la questione del riconoscimento della personalità giuridica, e quindi la necessaria regolarizzazione di tutti gli immigrati, avrebbe risvolti politici ed economici molto importanti, e probabilmente anche devastanti se prendessimo un attimo coscienza dell’attuale organizzazione dello Stato italiano. Per temporeggiare, e nel frattempo provare a trovare qualche soluzione, il sempre verde principio utilitaristico del massimo risultato con il minimo sforzo è ora proiettato su una dimensione temporale: meglio usufruire di qualsiasi tipo di beneficio ottenibile nel breve periodo, che affrontare dei sacrifici oggi per avere dei benefici nel lungo periodo. Proprio in funzione di questo principio ritroviamo oggi situazioni e condizioni lavorative, che rispecchiano quelle delle prime rivoluzioni industriali. Tre anni fa i braccianti manifestavano con forza il loro malcontento in qualità di lavoratori che, per una serie di diversi motivi, si sono fermati a Rosarno accettando condizioni di lavoro sotto i limiti della decenza umana. E, nonostante questo, hanno comunque contribuito a implementare il processo di produzione e la ricchezza del nostro paese.

Il 7 marzo 2011 i braccianti di Rosarno erano difronte al Ministero dell’Agricoltura non a caso, ma per trasmettere una chiara volontà di partecipare attivamente alla vita del nostro paese, attraverso azioni che abbiano, alla fine, un risvolto politico. Perciò, proviamo ad abbandonare per un attimo lo sguardo individualista, di moda in molti studi e lavori degli intellettuali di oggi, che tende a mettere l’accento sulla dimensione culturale legata alla diffusione delle loro straordinarie esperienze e storie di vita; e proviamo invece a vederli con uno sguardo d’insieme come lavoratori e come soggetti che subiscono un’ulteriore frustrazione derivante dal fatto che non sono nemmeno riconosciuti come depositari di alcun diritto dallo Stato in cui, e per cui, lavorano.

Paradossalmente non hanno avuto nemmeno il diritto di protestare, di far capire i loro problemi, perché sono subito caduti vittima dell’effetto distorcente dei media. Oggi tutto il palinsesto televisivo e i principali mezzi di comunicazione non parlano più della “rivolta degli immigrati”, ma i raccoglitori delle arance – tranne quelli che se ne sono andati tempo fa – sono ancora a Rosarno.


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