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"Rossamaro d'amore" di Simona Moraci per il concorso letterario di Villa Petriolo La gaia mensa
Da SilviamaestrelliI nostri complimenti a Simona Moraci, autrice del racconto "Rossamaro d'amore" che, nel concorso letterario La gaia mensa di Villa Petriolo, ha guadagnato la segnalazione della giuria, presieduta dal critico cinematografico Enrico Ghezzi.
Questa la motivazione per la segnalazione di merito: “Rossamaro d’amore. Un tradimento che si tradisce, e il gusto del presente che si consuma croccante fresco in abbandono duale all'alchimia del cucinare e dell'essere cucinati diventa ritmo del rimpianto”.
Simona, nata e residente e Messina, è dottoressa in Lettere Moderne, giornalista professionista, e dal 1994 esercita la sua attività tra testate nazionali e regionali. Sedotta e appassionata dall’arte culinaria, ha iniziato precocemente a scrivere e cucinare, sperimentando variazioni sul tema. Dopo aver girovagato tra redazioni e vie del gusto siciliane e venete, è tornata a Messina. Lavora per la “Gazzetta del sud”.
Racconto "Rossamaro d'amore" di Simona Moraci
Gaia. Miele dorato e spighe di grano. Era bella. Bella di sapore. La prima volta era stata qualche mese prima. Gamberi e maionese di pomodorini. Un sorso di bianco, secco secco nella gola asciutta. No, era la voce. A bere il suo respiro. Gaia. Dipingeva parole negli occhi scuri scuri mentre le labbra si muovevano estasiate tra paccheri e pistacchio. Ancora un sorso. Sarebbe stato meglio frizzante. Fruttato nel retrogusto del suo imbarazzo. Come non perdersi nel fondente delle ciocche sparse sulle spalle di quella sera stravagante? Qualche sfumatura d’argento sul mare d’una cena, preparata come altre, servita col cuore stufato. Era solo fragola a carpaccio sull’anatra scottata a trasudare rosso? Un rosso curioso, di lama, forse. Sul suo grembiule bianco, sulle mani un po’ ruvide di cipolle tritate e aglio schiacciato. Ma lei era entrata, dalla porta d’un freddo febbraio, a cercarlo. Un tavolo, un menù, un uomo. L’altro. A ghermirle il sorriso.
Poi era accaduto. Complimenti alla creme brulée, ai cannoli, ai sospiri di malvasia intrisi di ricotta e canditi. Gaia. A ridere di gusto, a intessere un mantello d’oro di metafora, dolce di sete e carezze, sul suo volto segnato dalla barba, sul suo spirito d’artista. Lui che creava, lui che disegnava d’estro e sapore per illuminare giorni e sere dei palati cittadini. Lui si era forse…?
Ma l’olio condisce, soffrigge, rosola. Tocchetti di cuore e parole in sugo ristretto. “Potrei parlare con te per ore e questi spiedini … un’alchimia di mare e colore… sei un artista, posso scrivere di te?” Puoi. Devi. Adesso. Voglio ascoltare ancora e axncora. Sentire con le tue labbra i gamberetti che si crogiolano nella crema di mais… da uno scoglio di sirena verso un vociferare di onde e gazze ladre. “Per scrivere di me, dovresti armarti di stoviglie, aneto e gamberoni…”.
Stefano. E così era accaduto. Un soffritto leggero, aglio cipolla e olio di peperone, da perdersi nello sguardo e solleticare le narici. La pelle di lei, da assaporare senza fretta. Affusolata e bianca d’albume, montato a neve. Talmente vicina ai peli bruniti di braccia troppo forti, abituate a faticare già piccine. Stefano. Terra antica, zio pescatore, a strappare ricci e leggende da fondi di mare. “Cosa cuciniamo?”, la voce, velluto e malizia, scivolava lieve sulla curva del seno, a stringere la vita sottile. “Gamberoni e paccheri, spolverati di mandorle, pinoli e grana di pane”. Una poesia, gioiva lei. A sbirciare il torace largo, il sorriso abbronzato, gli occhi nocciola di taglio moresco e terre lontane. “E i peperoni? Cosa ci devo fare?”, gialli e rossi, tra il fare e non fare. Stefano. E il suo profumo forte: zagare e cannella, pistacchio e cardamomo. I ricci scottati da un sole ammiccante, sulla fronte spaziosa di pensieri e sudore. “In padella a rosolarsi, per usare l’olio nel nostro soffritto”. E spellarli, dopo, uno ad uno, come sogni d’un mattino d’agosto. Caldi, scivolosi tra le mani, da fare a filetti per poterli gustare. “Mettili da parte, ora. Pensiamo al soffritto”. Gaia. Stefano. A spezzettare acciughe, tritare cipolle e civettare d’amore. Senza parole, a guardare il battuto dorare, le acciughe sciogliersi al tocco dell’olio: aggiungere pinoli, tostati appena, spolverare di aneto, tagliare i pomodorini. Da mettere dopo. A cose fatte. Con gamberoni freschi, trito di mandorla e grana di pane.
Gaia. Stefano. A sentirsi sfiorare, pelle e pelle, odore e odore. Mischiati d’olio, acciughe e peperone. Su paccheri al dente, da non potere aspettare. Stefano. Gaia. A cuocere, cuocere e rosolare. Gocce di rosso… a precipizio sul mare. Labbra e labbra, vita e vita, strette strette da non potersi lasciare. L’acqua bolle. Bisogna servire, svegliarsi, partire. Il gamberone s’impiattò, la mandorla dolce a farsi vicino, granella di consolazione. “Mi devo sposare”, sussurrò secca secca e il fiato smontava, il sudore gelava, la pelle si faceva fredda fredda. Lo stomaco non passa dal cuore. Gaia si alzò dai sogni disfatti. Stefano la guardò e passò avanti. Lo sguardo sull’altro che diventava marito: a sbeffeggiare le reti in barca, i calzoni tagliati e lo zio pescatore. Stefano l’artista, solo solo, tra stoviglie aggrovigliate e sogni speziati di cuore, fuochi ardenti e rossamaro d’amore.
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