Rossella Maiore Tamponi, LE CAMERE ATTIGUE, Edizioni del Foglio Clandestino 2010
Questo varcare è, certo, gesto assai delicato perché pone la poesia più responsabile nella tensione dell’affronto tra il dentro e il fuori: tra la descrizione del gesto intimo o, al limite, egoico, tra il bozzolo/culla della stanza linda, inespugnabile, e le parole, gli sguardi degli altri.
L’abitare a parte, l’appartarsi (appartamento, e non casa) sottolinea la specificità di una condizione che, da culturale, è diventata esistenziale: stare a parte, tra le mura di un alveare umanizzato e nell’ambiguità del suo uso; un edificio che imita un alveare ma che poi, di quel contesto sociale, prende solo, per pragmatismo, la necessità del dividere le spese.
Impossibile entrare veramente nelle case degli altri; si può solo immaginarla questa intrusione, varcare l’uscio, sentire il silenzio della prima stanza, riassumere la vita di una persona cogliendone il senso da come si presenta lo spazio, il suo uso, la dislocazione degli oggetti, gli odori, i colori.
Questo entrare è una reverie sull’esistenza degli altri attraverso la nostra; per confronto. Così le parole, nel descrivere una scena, un interno, indossano il vestito della riflessione, dello sguardo in movimento sulle cose mute.
Le case, gli interni delle case, appaiono disabitati. Lo sguardo sfiora semplicemente e spesso ricorda. La storia del soggetto narrante appare a tratti, per istantanee di immagini; non è mai solo monografia, ma inserita nella realtà plurale, nell’attiguità delle camere, dei muri/confini. L’autrice sembra parlare per somiglianza, per vicinanza al dolore, piuttosto che per rabbia, per chiamata alle armi. Parla di donne, soprattutto, come se ne avvertisse e ne capisse, per istinto e animalità, la comunanza.
In questa solitudine, tutta moderna, del sentirsi soli in una moltitudine di presenze, brillano qua e là le immagini semplici di una malinconia trattenuta, edulcorata dall’afflato del dolore: “il granito lucido di pioggia e di memorie” dopo il temporale; lo spettro dei platani e il lampione del viale; le porte socchiuse; “il riflesso dell’alba su ceramiche e fughe”; ”germogli bruciati dal buio”; i fiori d’aspidista; “la luce lungo i vetri”; “il tuo cuscino (che) da due anni giorno e notte resta gonfio”.
Sebastiano Aglieco
Qui Qui
*
INTERNO 19
La svegliano ancora i ciclamini, Gianna
con le poche certezze del loro colore,
godono della prima acqua dentro la caraffa.
La stanza ormai è un vecchio e vuoto
crocicchio di sentieri, discosto
dal piccolo ingorgo di tappeti del soggiorno.
Alla calma dei fiori dedicata
ai pochi istanti di caffè e biscotti
segue lo scatto di un interruttore:
arde lo schermo infuriano i sorrisi.
*
APRIRE
Mezzo giro di chiave: aprire,
segni il percorso del labirinto, scrivi
sulla passatoia la tua firma leggibile
ma la casa galleggia
in un’enorme chiusura blindata
pavimenti puliti e incerati:
fatiche rifuse da una quiete di conchiglia,
nessuno sembra accorgersi
di come corrano scivolosi
entrare davvero è improbabile
se nel petto vibra a girandola
soltanto una doppia mandata
*
Leggo, nel peso della mia carne,
le partiture del prossimo inverno,
come tradurre versi stranieri
per cogliere alle spire in sé
la fragile scommessa delle conchiglie.
Un fondato sospetto di prigionia
si è insinuato una sera dai ceppi del camino
nell’ipnosi del fuoco, nel borbottargli
tristezze e usare il mantice.
Il corpo a volte stride,
domanda inutilmente un perdono,
schiocca le dita in segno di obbedienza,
esposto al vento e sfibrato
dalla costanza della sete e dall’esitazione di un dio.
*
METTERE A POSTO
Tornare madre e padre di sé
mettere a posto
prima delle intemperie
fare lucide le case di lunghi respiri
il prezzo delle camere attigue
per viaggiatori stanziali ci sorveglia,
e così le chiavi strette nella mano