Rosso ciliegia.

Creato il 24 maggio 2011 da Enricobo2
Gli ultimi giorni di maggio, una voglia di estate, la temperatura che frizzante la mattina, diventa via via sempre più calda ma non ancora fastidiosa, il cielo che comincia a confondere delicatamente i contorni lontani che l'umidità rende un poco tremuli, i campi di grano, dove la levata è ormai terminata, si stendono all'infinito, tavole orgogliose e perfette dell'agricoltura vera, non quella da salotto che raccontano i grassi epuloni slowfoodisti a cui appartengo. Già, i campi di grano. Erano proprio questi i giorni in cui, quando ero sementiero, si percorrevano in lungo ed in largo alla ricerca della messe migliore, quella più adatta, quella più degna di essere usata come riproduzione, per separarla, mondarla e conservarla per l'annata successiva in un luogo lontano dal punto dove è stata prodotta come si conviene ad una corretta pratica agronomica, non quella confusa oggi da giornalai ingnoranti o comprati a cause fasulle da burattinai interessati. Andavamo in coppia, io, del Consorzio che avrebbe acquistato la partita per lavorarla successivamente e un tecnico dell'ENSE, ente nazionale sementi elette, che da decenni si cerca di inserire nella lista degli enti inutili, appunto perchè è uno dei pochi utili davvero.
L'agricoltore, non quel vecchietto finto con le mani callose, il volto bruciato dal sole e la marra di traverso sulle spalle ingobbite che mostrano ogni tanto in televisione, quello vero intendo, un imprenditore che ha deciso per tradizione familiare o per scelta di vita questa attività economica per produrre un reddito con cui mantenere la sua famiglia, ci aspettava sul bordo della sua prioprietà accompagnandoci di campo in campo. Si contavano le spighe fuori tipo, si verificava la presenza di infestanti particolari che non si sarebbero potute togliere con la lavorazione in sementificio, si controllava la rispondenza alla purezza varietale e la distanza corretta da altri campi di frumento inidonei, garanzia per il compratore dell'anno successivo. Poi si tornava in cascina per controllare i cartellini o meglio a far due chiacchiere sull'andamento dell'annata. Dionigi era orgoglioso dei suoi campi. Erano sempre tra i migliori, i più puliti e perfetti. Non una spiga inquinante a inficiare la purezza varietale. Seminava da anni il Libellula, una varietà con una bella spiga affusolata ed ellittica, dalla punta aguzza ed elegante che per la scarsità di pruina, virava presto al rosso vivo, resistente e adatta ai terreni non troppo fertili dell'alessandrino e per questo motivo piuttosto richiesta.
Si chiacchierava un po', ma lui o suo fratello a seconda degli anni, col loro sorriso buono e gentile, sapevano già come si sarebbe svolta la prassi consueta e così come per non parere, tornando verso la macchina, si passava proprio vicino ad una fila di cinque o sei magnifici ciliegi, con fronde maestose che già imponevano la loro ombra rinfrescante. Come per caso vicino ai tronchi era stata lasciata una scala di legno, come in silenziosa attesa. I rami erano piegati sotto il peso della fruttificazione imponente arrivata al suo culmine di maturazione. Giunti lì sotto, si gettava la maschera e sotto invito pressante, eccoci a testa in su, a raccogliere, a razziare, a staccare con furia, ad imbrattarci le mani di un rosso brillante come il sangue, che solo in parte finiva nelle sporte fornite alla bisogna, mentre altra parte veniva ingordamente ingollata con avidità. Che dolcezza, che polpe carnose! Quasi, mettendole in bocca sentivi la buccia che si tendeva prima del piccolo scoppio, mentre l'aroma del liquido profumanto si spandeva fino al palato, pieno e avvolgente. Per aumentare il piacere ce n'erano almeno due varietà. Quelle biancorosse, più sode e dure, ti davano un senso di freschezza raro e pulito, le altre scure, quasi morelle, più morbide e grosse, erano infinitamente dolci e profumate. Quando ebbri ormai dal sabba della raccolta scendevamo dai pioli consunti, Dionigi arrivava con qualche punta di ramo staccato dalle piante, carico fino all'inverosimile dei piccoli frutti. "Dutùr, ch'ai porta a ca' a so mujié" e ce li spingeva in macchina. Quel profumo intenso, quei colori vivi, ce li portavamo così fino a casa.
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