Ci aveva provato Carax, ci aveva provato con i suoi primi 3 film a creare una sorta di proprio universo filmico, una caratterizzazione ad personam contraddistinta da stilemi auto-riconducibili, tra cui le tematiche (queste tracimanti storie d’amore), la tecnica (versatile esibizione) e gli attori (Denis Lavant e Juliette Binoche), tre elementi che nonostante l’esiguità numerica bastano e avanzano per creare un mondo di celluloide altamente coerente/aderente a se stesso, ed ogni riferimento a Tsai Ming-liang è assolutamente voluto.
Alexandre Oscar Dupont (il nome vero) questo mondo lo aveva creato, ma poi? Poi dev’essersi sfaldato, tanto che dopo Gli amanti del Pont-Neuf (1991) sono passati 8 anni per rivedere Leos sul grande schermo con Pola X, poi, davvero, praticamente il nulla, nel 2008 solo un segmento di Tokyo! e basta.
Banale sottolineare che i topoi noir di Mauvais sang (1986) cozzano con la fluente impetuosità di una storia d’amore, o magari dell’amore in generale, mai realizzato – la Binoche non si concederà e Lise è solo un tumulto adolescenziale –, mai consumato davvero – la fuga perpetua, il terrore dell’ STBO –, e quindi inevitabilmente sofferto. A volte le ovvietà vanno dette, ed in questo caso sottolineate: il melò allaga le fondamenta crime di Rosso sangue ed il risultato può essere metaforicamente visto come quello spazio di acqua dove il fiume incontra il mare. Terreno ibrido perciò, volutamente (e si avverte) non catalogabile, e se da una parte le riprese all’ombra di un’abat-jour conferiscono solennità hard-boiled, dall’altra si sviluppa un percorso che aleggia nei territori del lirismo, se non, perfino, dell’intimità, e la lettera di addio a Lise è, a mio avviso, calzante esempio di quest’anima sentimentale.
Ma se la coesistenza di questi due registri è inoppugnabile, è parere di chi scrive che il film non abbia fluidità e/o unità, non per manchevolezze varie del regista, bensì perché è lo stesso Carax che, sempre a mio umile e inutile parere, non vuole farlo, non gli interessa granché né del colpo alla casa farmaceutica né dei tormenti amorosi di Alex. Perso nelle sue giravolte visive, l’autore francese carica prepotentemente l’occhio e di conseguenza il film si imbottisce di espedienti tecnici che violentano il piano visivo. Geniali, sul serio, tutti gli inseguimenti, materia cine-magmatica da vedere e rivedere come l’instabilità dei raccordi: a volte grezzi con i cambi scena netti e repentini, altre volte meticolosi se non originali nel proporre angoli di ripresa anticonvenzionali (il carrello laterale sulle note di Bowie).
Carax, al tempo degli esordi considerato un vero e proprio enfant prodige, esibisce un gusto per la vista fuori dal comune, eppure allo stesso tempo dimostra che l’estetismo non basta, ci vuole una pietra su cui lavorare, per abbellirla, ingraziarla, migliorarla, materia prima essenziale: il racconto, che qui c’è, e purtroppo non c’è allo stesso tempo.
Per finire, un’associazione discutibile. Questo film mi ha ricordato un po’ la trilogia europea di Lars von Trier, un trittico esteticamente superbo ma in quanto a sostanza meglio passare oltre…