Rotta europea, ambizioni globali

Creato il 08 settembre 2011 da Istanbulavrupa

(riproduco i paragrafi iniziali di un articolo inviato per la pubblicazione alla rivista Imperi)

"Credetemi, oggi Sarajevo ha vinto come quanto Istanbul, Beirut come quanto Izmir, Damasco come quanto Ankara, Ramallah [...] e Gerusalemme come quanto Diyarbakır." Nel suo "discorso dal balcone" - quello della sede del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) ad Ankara - dopo la vittoria elettorale del 12 giugno (49,9% dei voti, 326 seggi su 550), che gli ha permesso di confermarsi alla guida del terzo governo monocolore di seguito, Recep Tayyip Erdoğan non ha parlato da europeo: anzi, la parola Europa non l'ha neanche pronunciata. Si è presentato invece come riferimento politico per i "popoli fratelli" dell'area ex ottomana, dalla Bosnia alla Palestina, e ha proposto la Turchia come esempio di stabilità politica e di modernizzazione compatibile con l'islam: promettendo il suo impegno per assicurare nelle democrazie in divenire della regione diritti, libertà, giustizia. Avevano forse ragione tutti quei commentatori che soprattutto dopo la mediazione turco-brasiliana sul nucleare iraniano e l'incidente sanguinoso della Mavi Marmara dello scorso anno avevano avevano parlato di abbandono del "blocco occidentale" da parte di Ankara, di riorientamento della politica estera guidata dal ministro Ahmet Davutoğlu, di "spostamento di asse" dalla Nato verso gli ex stati canaglia (ex nel senso che l'espressione è stata formalmente superata) Iran e Siria? Che s'interrogavano in blocco - inclusi il ministro Frattini e il presidente della Commissione europea Barroso - su chi avesse perso la Turchia o sul perché la Turchia avesse perso la retta via verso Bruxelles, magari stanca degli ostacoli frapposti - e dai pregiudizi esibiti - principalmente da Francia, Germania e Austria (con la complicazione cipriota)? La Turchia è stanca di aspettare, ha deciso di guardare altrove: questa l'interpretazione più diffusa.

Un'interpretazione poco acuta, basata su di uno schema concettuale bipolare - Occidente vs. Urss, trasfigurato da Huntington e dai suoi epigoni in Occidente vs. mondo islamico - assolutamente inadeguato a cogliere i cambiamenti strutturali di un sistema diventato di colpo unipolare e che si sta gradualmente trasformando in multipolare. Dopotutto, le dichiarazioni formali del ministro Davutoğlu, brillante professore di relazioni internazionali che ha lasciato l'insegnamento - dopo esser stato consigliere del premier fin dalla sua ascesa al potere nel 2002 - per diventare il responsabile della diplomazia turca dal 1° maggio 2009, accostato per questa sua duplice veste a Henry Kissinger dalla prestigiosa rivista americana , sono piuttosto esplicite e concordanti: gli obiettivi strategici della Turchia per il 2023, nel centenario della repubblica voluta da Mustafa Kemal Atatürk, sono l'ingresso nell'Unione europea, l'ingresso nella (per Pil) degli stati più ricchi e sviluppati al mondo, il superamento di tutto il contenzioso e l'integrazione economica e politica coi suoi vicini, la conquista di una posizione di influenza su scala globale. Mettendo da parte le considerazioni dal sapore orientalista e vagamente propagandistico sui cambiamenti di asse e di orientamento, buone per la polemica politica ma non per le analisi, l'unica questione seria da porci diventa: l'obiettivo europeo è compatibile o no con le ambizioni della Turchia di diventare potenza regionale egemone nel Mediterraneo orientale e addirittura potenza globale? E cioè, il suo peso economico, la sua continua ricerca di forme originali e indipendenti di iniziativa diplomatica, la sua accresciuta influenza politica potranno ormai essere piegate alle esigenze e alle direttive dell'Ue?

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