Da dove iniziare? Partiamo dalle necessarie dichiarazioni di Nanni Moretti (distributore del film con la sua Sacher), maturate alla presentazione stampa a Roma di Cesare deve morire (2012), l’ultimo parto cinematografico degli ultraottantenni fratelli Paolo e Vittorio Taviani: «L’Orso d’oro a Cesare deve morire è una vittoria dei fratelli Taviani, non del cinema italiano». Precisazione d’obbligo (al di là del giudizio di valore sul film), riguardo alla voglia e alla capacità media dei produttori e distributori italiani di accogliere e diffondere progetti trasversali, più in generale dislocati altrove (creativamente) rispetto ad un humus (quello attuale) talmente uniforme e livellatore verso forme di rappresentazione incapaci di produrre una qualsivoglia consapevolezza (anche in relazione al semplice concetto del bello) da ‘fuggire come la peste’ voci isolate in cerca di nuove strade visivo-narrative. E solo con l’Orso d’Oro in tasca, i consolidati fratelli-cineasti hanno visto tradotti in complimenti le diffidenze che, idea-progetto sulla carta, li hanno circondati, rendendo impervio l’avvio dei finanziamenti e delle riprese. E questo, è tutto molto italiano contemporaneo, purtroppo: l’ipocrisia di ‘affollarsi attorno al vincitore’, senza rischiare mai (o quasi). Che sia stato un Festival ‘mediocre’ (nella vetrina del concorso ufficiale) come Berlino (gli Orsi d’Oro-d’Argento che ho avuto modo di visionare finora si accomunano per una in medias res filmica tale, da renderlo estremamente acerbo per qualità) a permettere di alzare qualche flebile vis polemica in casa nostra, mi produce un sorriso delicato. E sorrido ancor di più quando mi immergo nella visione di Cesare deve morire: seppur imperfetto nel non aver compreso l’inutilità e la superfluità di rendere (e aggiungere) l’esistenza carceraria al di fuori della messa in scena teatrale del testo shakespeareano Giulio Cesare, consumata dai detenuti dell’istituto penitenziario di Rebibbia dentro la fisicità materica e mentale del carcere (una immedesimazione essa stessa metafora calzante della vita carceraria e non, nella quale tutti, in misura più o meno greve, concediamo-barattiamo un pezzo di libertà), questi due fratelli rispettivamente del 1931 e del 1929 si rivelano, alla loro veneranda età, molto più originali e innovativi di un sostanzioso pacco di nuova generazione cinematografica italiana (prodotta e distribuita).
L’essere rimasti ‘folgorati’ dagli spettacoli dei detenuti di Rebibbia guidati dal regista Fabio Cavalli, e da quella visione aver rielaborato cinematograficamente tale esperienza, intuendo una messa in scena che assorbe l’essenza stessa della vita, della morte, dei limiti, dei vizi e delle virtù tutte umane… L’aver universalizzato-alienato tale dimensione dentro il bianco e nero fotografico, nell’asetticismo di spazi costretti-compressi, tra ferro, grate e cemento, nella realtà dei dialetti e della storia di ciascun detenuto, nel progressivo immergersi in consapevolezza degli attori-carcerati all’interno del ruolo ricoperto e, contemporaneamente, nella rispettiva condizione di monchi (per sempre o a lungo termine) di libertà e di vita di cui solo ora, paradossalmente, se ne sente il peso e se ne scopre il valore, fa di questo lavoro dei fratelli Taviani un lodevole ‘contrasto’ sulla cartina di tornasole di una cinematografia italiana pessima e senza nessun salvacondotto di qualsiasi tipo da concedere (né in relazione alle storie proposte dai cd. nuovi autori: sempre uguali, immobili, esangui; né per la scelta dei progetti da gestire e proporre al pubblico da parte delle case di produzione). Altro ‘contrasto’ lodevole, doppiamente lodevole perché generazionalmente agli antipodi anagrafici dei Taviani, è quello di Davide Manuli. Che ha fatto tappa (sempre fuori Italia) all’International Film Festival di Rotterdam (IFFR) con il suo ultimo film, La leggenda di Kaspar Hauser (2012), presentato nella sezione Spectrum di un Festival espressione della volontà di promuovere una cinematografia non commerciale, relazionando più direttamente nella fruizione il pubblico, relegando in secondo piano l’aspetto competitivo. La macchia destrutturante, visionario-stilistico-sonora-emotiva di Davide Manuli ha resistito, indomita, alle pregresse e frustranti attese di finanziamenti nei corridoi ministeriali.
Autofinanziamento, il motore primo e rivelatore di tale reale talento, che ha dato l’avvio a Beket (2008) (porzione prima del dittico che La leggenda di Kaspar Hauser ha completato), riallacciando nel paesaggio lunare dell’entroterra sardo e nei personaggi surreali in cui ci imbattiamo, Aspettando Godot e Finale di partita di Samuel Beckett, in una rivisitazione che è novus, entità di cinema distinta ed esattamente definita nel fascinoso e illuminante risveglio visivo e percettivo di porzioni-verità-parodossi temporali e spaziali nei quali veniamo immersi. Il lancio a Locarno e in altri Festival Internazionali che ne hanno sancito riconoscimenti ed apprezzamenti non è bastato allo zombi distributivo Italia: la pellicola è riuscita a girare nelle nostre sale solo grazie ad una autodistribuzione (con l’appoggio della Blue Film di Bruno Tribbioli e Alessandro Bonifazi, che hanno instaurato un legame diretto con gli esercenti), e successivamente nel circuito dvd con la Minerva Raro Video. La leggenda di Kaspar Hauser gode della stessa attraenza (per quanto mi riguarda purtroppo solo sulla carta, visto che non ho ancora avuto modo di guardarlo) di Beket. La Sardegna è nuovamente location privilegiata per la versione poetico-surreale-contemporanea-manuliana del mistero del fanciullo Kaspar Hauser: nel 1828 apparso d’improvviso su una piazza di Norimberga, estraneo a qualunque cognizione dell’umana convivenza… Mistero già sondato da François Truffaut (L’enfant sauvage/Il ragazzo selvaggio, 1970) e Werner Herzog (Jeder für sich und Gott gegen alle/L’enigma di Kaspar Hauser, 1974)… Pare che questa volta una lungimiranza distributiva (da parte della Iris Film) farà approdare il film di Manuli anche nelle nostre sale.
Giunto su una spiaggia disabitata del Mediterraneo, in un tempo e un luogo imprecisati, Kaspar Hauser è costretto a confrontarsi con la malvagità di una Granduchessa che sente minacciato il potere da lei esercitato sulla comunità. Per liberarsi dell’intruso biondo, costei chiede aiuto al Pusher, un criminale con cui ha una relazione, che sa come liberarsi del “nemico”. Peccato che non abbia fatto i conti con lo Sceriffo, un dj che considera Kaspar come il nuovo Messia.
Kaspar la giovane performer Silvia Calderoli, il doppio puscher-sceriffo Vincent Gallo, la linguistica sonora elettronica di Vitalic, il bianco e nero classico e avanguardistico aprono varchi fuori e oltre un muro cinematografico italiano tanto ostinato nel continuare a putrefarsi dentro una non arte né cultura, refrattario a permearsi di sperimentazione, ricerca e creazione reale.
Maria Cera
Paolo e Vittorio Taviani – FILMOGRAFIA
San Miniato luglio ’44 (1954)
Un uomo da bruciare (1962)
I fuorilegge del matrimonio (1963)
I sovversivi (1967)
Sotto il segno dello scorpione (1969)
San Michele aveva un gallo (1972)
Allonsanfan (1974)
Padre padrone (1977)
Il prato (1979)
La notte di San Lorenzo (1982)
Kaos (1984)
Good morning Babilonia (1987)
Il sole anche di notte (1990)
Fiorile (1993)
Le affinità elettive (1996)
Tu ridi (1998)
Resurrezione – miniserie TV (2001)
Luisa Sanfelice – miniserie TV (2004)
La masseria delle allodole (2007)
Cesare deve morire (2012)
LETTURE su Paolo e Vittorio Taviani
La notte dei desideri. Il cinema dei fratelli Taviani di Nuccio Orto, 1987 Sellerio.
Sotto il segno dello scorpione. Il cinema dei fratelli Taviani di Guido Aristarco, Collana Biblioteca di cultura contemporanea, D’Anna.
Davide Manuli – FILMOGRAFIA
Girotondo, giro intorno al mondo (1998)
Inauditi-Inuit! (2006)
Beket* (2008)
La leggenda di Kaspar Hauser (2012)
*Beket è disponibile in dvd nella collana Raro Video di Minerva.