Rotterdam Film Festival Daily: i film he ho visto giovedì 22 gennaio 2015

Creato il 23 gennaio 2015 da Luigilocatelli

1) Gluckauf di Remy van Heugten. Olanda. sezione TG (concorso per i Tiger). Voto 6 e mezzo. Cliccare per la recensione.
2) La La La at Rock Bottom, di Yamashita Nobuhiro. Giappone. Sezione Spectrum. Voto tra il 6 e il 7
Un tizio che si presume implicato in loschi affari viene aggredito (regolamento di conti, come dicevan le vecchie cronache nere gazzettare?) e, causa colpo di mazza alla testa, perde la memoria. Lo ritrova una ragazza che lo soccorre e ben presto si rende conto delle qualità canore dello smemorato. Siccome gestisce una band cui viene a mancare di colpo il canante, ecco che lo rimpiazza proprio con l’amnesiaco. Il quale, pur abbastanza catatonico, tira fuori da chissà quale parte meno addormentata della sua memoria una canzoncina che subito piace parecchio ai musicanti del gruppo e al pubblico. Diventerà una piccola star, ma, insegnano le regole del genere, il passato ritorna, e pure la sua vecchia identità. Con tutti i vari conti in sospeso. Riuscità la ragazza-manager forse innamorata di lui a salvare il suo front runner? Una piccola crime-story parecchio inusuale, con inserti frequenti di pop giapponese assai gustosi e concerti smandrappatissimi da Sanremo jap. Film balzano e assai simpatico, film sghembo che fa slalom tra generi e ciché mantendendosi parecchio originale. Con un protagonista laconico e cool che ricorda vaghissimamente certo Takeshi Kitano. Niente di speciale, intendiamoci, ma gradevole sì. Il regista Yamashita Nobuhiro è per me una scoperta, ma è un veterano di questo Festival. Ieri ha portato qui il protagonista Shibutani Subaru, che in Giappone è una star vera e che si è pure esibito in concerto.
3) Phoenix di Chritian Petzold, Germania. Sezione LimeLight. Voto 6. Cliccare per la recensione.
4) God Loves The Fighter di Damian Marcano, Trinidad & Tobago (peceduto dal corto Giants dello stesso regista). Sezione Bright Future. Voto 4

Photo credit: International Film Festival Rotterdam

Presentato in gran pompa come il passaggio al lungometraggio di un regista caraibico assai coccolato dal festival. Che, se ho ben capito, l’ha sostenuto, in parte finanziato, lanciato. IFFR crede in Damian Marcano, un ragazzone caraibico con dreadlocks che si è presentato sul palco a fine film a raccogliere i tanti applausi (e però ci son stato anche fischi, e silenzi di dissenso come il mio). Un’ora e mezza e più di una macchina da presa survoltata e sovreccitata che vaga nelle peggio strade di Port-au-Spain, la capitale di Trinidad & Tobago, a seguire viete variamente derelitte, spacciatori, lenoni, prostitute, ragazzini perduti, madri istriche, padri assenti, ganster di ogni tipo, e droghe a montagne, e armi, armi pesanti, che pasano di mano in mano, comprese quelle dei bambini. Come parziale compemsazione, scene di chiese cattoliche – isole nel marasma – con vari santi e madonne e predicatori e miti signore in preghiera. Si moraleggia: “Siamo nel lato wild di Port-au-Spain, di là quelli che hanno tutto, di qua quelli che non hanno niente”. Si criminaleggia non senza una qualche fierezza: “Amico, da Trinidad passa tutta la coca del Venezuela e tutte le armi”. E siccome si mostrano quelli che non hanno niente però ne combinano di ogni ecco il film tende, se non a giustifcare, cerco a farci vedere non senza compiacimento le nefandezza. Ma proprio tutte. In un inglese caraibico-parolacciaro e rappetaro slanghissimo e incomprensibile, tant’è che ci vogliono i subtitles in inglese. Per almeno tre quarti d’ora non si sopporta tutta questa massa di suoni e rumori e urla e sguaiataggini e estetica del lercio e del degrado (con camera istericamente, cocainicamente frenetica, e su schermo larghissimo) che ti viene riversata addosso. E scatta il rigetto di questo cinema brutale e selvaggio che si colloca al livello della bestialità e della melma che riprende, nel solito equivoco mimetismo presunto iperrealista. Poi le varie traiettorie esitenziali cominciano a creare un qualcoa che somiglia a una narrazione, c’è ua prostituta bambina da salvare, e il cazzeggione Charlie trova finalmente un barlume di dignità e un’occasione di riscatto. Che sembra di rivedere in certi momenti Taxi Driver in versione caraibica. Ma non basta a salvare God Loves the Fighter. Questo non è il cinema che amo, di un terzomondismo tardivo che con l’alibi della denuncia social-politica ti sommerge di ogni possibile abiezione, senza nemmeno provarci a costruire una forma e uno stile a imbrigliare il magma. L’ho detestato, poi magari questo fim farà il giro delmondo, anche perché rapprsenta una delle anime di questo festival, la sua ansia si esplorare nuovi territori filmici costi quel che costi. Ma io, se permettete, dico no. Preceduto da un corto ltrettanto isterico dello stesso regista, Giants, che praticamente non distingui dal film.
5) The Inseminator di Biu Qim Quy, Vietnam. Sezione Bright Future. Voto 4

Photo credit: International Film Festival Rotterdam

Anche per quest film vietnamita c’era grande attesa e un buzz fortissimo. Preceduto in sala dall’intervento di uno dei programmatori del festival (simpatico, e in un inglese finalmente comprensibile, mica come tanto ruminante mumble-mumble che senti in giro), il quale ci spiega di come l’IFFR sia ‘honored’ di presentare in prima assoluta europea questo film ‘unique’, starordinario, e pure censurato nel suo paese, il Vietnam. Con il che il ricatto verso il povero spettatore è già bell’e pronto. Non c’è la regista qui a Rotterdam, al suo posto l’attrice protagonista, assai carina. Poi comincia il film, con un titolo che lascia intuire una qualche sporcacconeria. Tutto girato nel Vietnam più montuoso e più selvaggio e più lontano dalle metropoli. Paesaggi meraviglia nel quale sono incastonai i tre personaggi, e dove prende man mano vita una storia che ha a che fare con miti ancestrali, archetipi junghiana, e pure un bel po’ di tragedia greca, la quale si sa non ha frontiere. Due uomini e una donna. Marito e moglie, una moglie assai più giovane del marito, e il figlio di primo letto di sedici anni di lui, una specie di ragazzo selvaggio, privo di linguaggio o quasi, che si rotola tutto il giotno nudo tra il fango collezionando gli adorati ranocchi e sopratutto lombrichi (i lombrichi sono una presenza-feticcio in questo film). Il junior ha l’età degli ormoni oramai, urge accasarlo con una donna, il padre non fa che ricordargli che al mercato dell’amore (?) deve trovare una ragazza e portarsela via perché ormai il suo seme è pronto per essere fecondato e dare frutto. Ma le voglie del ragazzo selvaggio son tuttte per la matrigna, la quale mica disdegna, anzi. Cosa succede dopo non si capisce tanto bene, visto che la regista anziché buttarla sulla tragedia rusticana sceglie ahinoi la strada del realismo immaginifico, com ampie escursioni nel mitologico, nel simbolico, nel ritualismo etnico. Che i due scopino pare verosimile, che il marito e padre si incazzi è certo. Forse qualcuno muore, forse qualcuno ammazza qualcuno, forse no. Forse si muore e poi si rinasce in un rito di espiazione o forse purificazione. Intanto, paesaggi maestosi golosamente inquadrati, nuvolaglie sull cime, vallate verdissime, acque pure di montagna. La regista ci mette troppa roba, comprese certe sculture-totem di fango costruite dal ragazzo per evocare in absentia l’amata, son bacini, e cosce e vulve, co ntornate da falli giganti ritti e flosci, una roba tra Niki de Saint-Phalle e la Louise Bourgeois più scatenata, èperò lassù tra le cime vietnamite. Surrealismi, come i bambolotti-mostro rossosangue che coprono il corpo della bella matrigna a bagno nel torrente. A dirla tutta, questo The Inseminator m’è parso troppo arty e costruito, e parecchio lontano dal capolavoro. Potrebbe fare però la sua strada nei circuiti arthouse d’Occidente, anche grazie a un po’ di bizzarro sesso asiatico che trapela qua e là. Ee potrebbe diventare cultistica la scena del ragazzo che infila tra le cosce di lei un lombrico, e lei pare gradire. Voto 5


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