Me Quedo Contigo (Photo credit: International Film Festival Rotterdam)
Set Me Free (Photo credit: International Film Festival Rotterdam)
1) Brave Men’s Blood di Olaf de Fleur Johannesson. Islanda. Sezione Spectrum. Voto 6 e mezzo
L’Islanda da un po’ è terra produttrice di noir, crime-story, cop-movies luridi e cattivi al punto giusto. Da non confondere con i thriller scandinavi, che sono tutt’altra cosa (e sono mediamente anche più noiosi). In questo Brave Men’s Blood tutto si svelga in una Reykyavik linda quanto sinistra e piena d’ombra, e pericoli e minacce appena mascherati detro la nordica, pulitissima facciata. Un noir urbano, senza nemmeno un po’ di quei paesaggi islandesi che ritroviamo in tanto fantasy, e di geyser non c’è traccia. C’è del marcio all’interno della Narcotici, il capo è colluso con il boss della mafia serba che controlla il traffico di coca. Lo spietatissimo Sergej si è impossessato del territorio spodestando con modi balcanici il precedente re del malaffare, locate Gunnar. Tra il giovane protagonista, agente degli Internal Affairs, e Gunnar si stabità un’alleanza tattica per far fuorisia il nuovo boss che il giuda all’interno della polizia. Certo, tutto déjà vu, ma benissimo scritto e girato. Con un’implacabilità e un rigore assolutamente nordici. Tuto intriso di un forte senso della colpa, del peccato, dell’espiazione. Con un finale amarissimo e drammatico per il dilemma etico che il protagonista è costretto ad affrontare. Una buona sorpresa. Con i popoli dell’est Europa a incarnare nell’immaginario del profondissimo Nord i nuovi barbari portatori della più efferata violenza (succedeva anche in In ordine di sparizione, il crime norvegese prsentato l’anno scorso alla Berlinale).
2) Above and Below di Nicolas Steiner. Germania/Svizzera. In concorso per l’Hivos Tiger Award. Voto 5
Indipendente, indipendentissimo. Docu girato in America (ma il regista è made in Europe) che viene a raccontarci storie di vari dropouts – gente fuori di testa o scagliati fuori dal consesso sociale – tra Las Vegas e il deserto lì intorno. Purtroppo insopportabilmente lungo, due ore e un quarto, quando 90 minuti sarebbero stati anche troppi. Simile in quel che ci mostra a Navajazo, il documentario messicano che ha vinto a Locarno 2014 la sezione Cineasti del presente, pure quello pieno di esistenze disperate di frontiera e di margine, e la frontiera era anche tra Stati Uniti e Messico. Solo che di quel piccolo capolavoro Above and Below non la secchezza, l’approccio fenomenlogico. Sbandando invece parecchio sull’estetizzazione ella miseria e sul biografismo sentimentalizzante dei suoi protagonisti. A partire da una banda di matti capitanati da una signora reduce dall’Iraq che si addestrano nel deserto alla futura vita su Marte, covinti come sono che il nostro pianeta sia destinato a una prossima fine. Tutto un andare e venire tra pietre e pasaggi lunari in improbabili scafandi da astronauti e con trabiccoli Nasa dismessi probabilmente acquistati su eBay. Il secondo oggetto dell’indagine del regista è un ex truck driver che dopo vari disastri di famiglia (“mia moglie pensava solo al crack”) ha mollato tutto andando a vivere solitario in una ex baracca militare. Gli altridropouts sono il popolo dell’abisso di Las Vegas, quelli che vivono in un tunnel-canale disseccato, con particolare attenzione per una coppia, lui 39, lei parecchi di più, con ex mariti e figli disseminati per gli Stati. Anche loro, m’è parso di intravedere, fumatori di crack, e però uniti da una storia forte. Cose già viste e raccontate, anche meglio, da altre parti.
3) Me Quedo Contigo. Regia di Artemio. Argentina. Sezione Signals. Voto 2
Duro da reggere, anche per palati e stomaci adusi al peggio cinema. E per peggio intendo il più sanguinoso, violento, raccapricciante, pulp. Il regista, un messicano che si forma solo come Artemio anche se un cognome ce l’ha (Narra), è un artista-performer che – ci dicono le note di presentazione – da tempo con il suo lavoro intende indagare e ovviamente denunciare la violenza endemica nel suo paese (in primis quella dei cartelli narcos, suppongo) mettendola in scena, mostrandola, portandola alla superficie e all’evidenza. Adesso con questo equivoco e malsano Me Quedo Contigo il signor Artemio estende anche al cinema il suo progetto. Mah. L’mpressione è che qui si traffichi con i modi dell’horror più turpe, del torture porn con malcelata soddisfazione, e che qullo della denuncia della violenza sia un alibi fragile, di cartavelina, per uno spettacolo del sangue e del massacro. Me Quedo Contigo è lo Springbreakers messicano, con quattro ragazzacce che si trasformano in furie selvagge e sanguinarie. Solo che non c’è il senso dello stile di Harmony Korine, solo un’ironia greve da trivio (avrebbero detto le zie), un’estetica camp da novela messicana, enormi buchi di scneggiatura, verosimiglianza latitante. Una bella spañolita arriva da Madrid per incontrare il suo amato Esteban, fine antropologo (cameo di Diego Luna). Troverà ad accoglierla tre sigorine di Città del Messico che la porteranno in una villotta, in atesa che il misterioso Esteban finalmente si palesi. Sono sboccatissime, di una volgarità cui il cinema ci ha abituati, ma che non smette di ingastidirci. Con tutto quel patlare di scopate, pompini, cazzi. E a darsi della puta l’un l’altra (“Te sembro vestita da puta?” “Sìììììì”). Figuriamoci la spagnolita perbene, che rimane perplessa, anzi basita. Verrà coinvolta dalle tre streghe in una notte brava, caricano su in macchina un cowboy tutto di bianco vestito e assai macho e lì comincia il macello. Lo scopano furiosamente in due e quando lui comincia a scocciarsi per il troppo fervore erotico delle ragazze del mucchio loro lo tramortiscono con il calcio della pistola (la pistola di lui). Quindi lo trascinano in casa, lo legano, gli fanno ingollare a forza pilloloni di Viagra, cominciano a torturarlo. Con lui a cazzo rittissimo e visibilissimo (una protesi, suppongo). Anche la spagnola bon ton per via della troppa tequila partecipa alla bravata. Sarà un’escalation. Il povero macho prigioniero verrà tagliuzzato con un le forbici, col suo sangue le erinni decoreranno il proprio corpo e l’ambiente (che si palesi qui la vocazione artistica del regista?), in un sabba infernale. Please, non tiriamo fuori il potere oscuro del femminile, la supremazia sul maschio e altre cazzate. Queste quattro sono delle stronze e basta. E questa è pura pornografia del sangue. Punto. Però se appena appena adottato da qualcuno, Me quesdo contigo ci rischia di diventare un culto internazionale.
4) Another Trip to the Moon di Ismael Basbeth. Indonesia. In concorso per l’Hivos Tiger Award. Voto 4
Più Rotterdam Festival di così. Un film indonesiano (però girato anche grazie a un fondo di sostegno nuovi autori del festial) che ci racconta di un racconto orale, di un mito di quella cutura. Non è che ci spaventi l’alro etnico, siamo gente di mondo, qualcosa di entologia e antropologia l’abbiamo pure studiato, quanto basta per non soprenderci di fronte a cose così. Il problema è un altro, è che il film è noiosissimo, e non per l’arcana storia che racconta. No, per l’imsostenibile compunzione arty che trasuda da ogni immagine. Oltretutto mescolando, per far più avanguardia e meglio épater i criici dei festival, il tempo mitico e quello della modernità. Con passaggi da fuori della storia a dentro la storia (di oggi). Immagini arcaicghe in cui irrompono giocattolerie contemporane e visioni tecnologiche. Ci siam capiti, no? Ambizioni tante, ma il risultato è scarso. In una foresta vediamo due giovani donne (o forse uno è un uomo, non si caisce molto bne) accoccolate in un nido come le due parti dell’yin e yang all’imnterno del cerchio, e già questo Sono guerriere, si dividono il lavoro, una cerca le esche per i pesci, l’altra i pesci li centra con la sua lancia. Poi una delle due vien ucisa da un fulmine e poi rapita in cielo dagli Ufo. L’altra non si dà pace, por’anima. Tant’è che esce dalla foresta, prende l’autobus, diventa una ragazza di oggi, si sposa, ha un figlio, Qualche anno dopo, soggiacedo letteralmente al richiamo della foresta, tornerà nella natura selvagga da dove è venuta, e dove ad accoglierla triverà la sua metà, tornata sulla terra. Pretenziosiossimo, con troppi tramonti e troppi paesaggi e etnografismi da Natiomal Geographic. Con parecchi inserti di danza indonesiana, e allora m’è venuto in mente quello spettaclo di Bob Wilson dal titolo impossibile – qualcosa tipo LaLiGo – che proprio un mito inonesiano metteva in scena. Ma eravamo ad altre altitudini.
5) Set Me Free di Kim Tae-Yong. Corea del Sud. Sezione Bright Future. Voto 7+
Un altro film coreano di questo festival che nelle varie sezioni ne allinea una moltitudine. Qui siamo in un racconto adolescenziale e familiare, privo di ogni vezzosità stlistica, girato in modo basico ma di massima eficacia, e con una sceneggiatura molto ben scritta. Ritratto senza pietà di relazioni malate, manipolatorie, di uso, tra ragazzi, tra figli e genitori, tra fratelli, tra ragazzi e gli adulti che pure dicono di aiutarli. Con il personaggio di adolescente più inuietante e disturbante da un bel po’ di tempo in qua (se si escludono gli horror, ovvio), viso angelicato, ma dentro fatto della materia dell’inferno. Un calcolatore. Un ambizioso che vuol tirarsi fuori dalla merda in cui il destino l’ha scagliato alla nascita e vuole fare la sua scalata sociale, a qualunque prezzo. Siamo nella Corea cattolica (il cattolicesimo è prsentissimo nei film made in Seoul), presso una coppia benestante che si prende in affido ragazzi disagiati, difficili. John, questo è il suo nome di battesimo, perché quello coreano è molto più complicato, ha un padre che non lavora, una madre malata, e lì, in quella casa di ricchi, ha trovato la sua caccia, e intende difenderla. Ha capito che la Chiesa può garantirgli un rifugio sicuro e dunque ha deciso che, non appena possibile, entrerà in seminario e si farà prete. Non si perde una messa, è devotissimo. Ma c’è anche quell’altra sua faccia. Ruba dal negozio dei genitori affidatari scarpe da rivendere ai compagni di scuola e quando se ne accorgono lascia che la colpa cada sull’altro ragazzo in affido. Con la famiglia naturale John ha rotto i ponti, se ne vergogna, non ne vuole più sapere. Ci saranno dramatici sviluppi, fino a quando l’implacabile angelo demoniaco farà un passo falso. Agghiacciante, letteralmente. Nessuna crudeltà (psicologica) è risparmiata, tutti i personaggi si affrontano e dilaniano in dialoghi spietati e affilati come lame. Una delle sorprese di questo Rotterdam. Alla fine, un grande applauso, alla presenza del regista, giovanissimo..