Proverò a narrarne nel modo il più distaccato che riesco. Correrò il rischio di essere frainteso: tanto le polemichette virtuali non le schivi con la vasellina. Piuttosto mi dichiaro sin d'ora spiaciuto per ogni involontario campanilismo e soprattutto per la divagazione extrasportiva con cui affliggerò gli ignari avventuratisi in questo post apparentemente cronachistico, in realtà banalmente sentimentale.
Lo spunto è una piccola-grande notizia: Rugby Rovigo Delta (in foto: la squadra 1966-'67, con "Maci" Checchinato ) e RWE Ospreys Rugby hanno formalizzato un accordo di collaborazione su una serie di nuove iniziative riguardanti " scambi di competenze tecniche e risorse, al fine di migliorare l'assetto organizzativo, le capacità commerciali e competitive delle due organizzazioni".
A provare a entrare nei dettagli, se ne ricava l'impressione che la categoria più appropriata in cui incasellare questo accordo par essere quella del gemellaggio: investimenti zero, chiacchiere e distintivo, strette di mano e inviti a cena. E poi, magnando e bevendo, qualcosa verrà pur fuori: "ottimizzare le risorse", "esplorare nuovi territori", "attingere ogni conoscenza dell'altrui rugby", "opportunità di sviluppo per giocatori ed allenatori", per adesso c'è solo queste vaghezze un po' fumogene.
Ciò ricorda, se vogliamo, l'affiliazione del Cascavel Rugby Clube brasiliano agli Aironi, più che Rovigo entri in Celtic League; ciò nondimeno si tratta di un segnale potente, in linea con la filosofia di sempre del club polesano. E' la formalizzazione di una rivendicazione di indipendenza dai destini del rugby veneto, mainly Benetton, senza per questo ridursi a confluire in progetti alternativi o allinearsi a mamma Fir in attesa di qualche briciola dal tavolo. Rugby Rovigo Delta balla da sola, pare essere l'orgoglioso sottotitolo, del tutto allineato all'approccio e alla mentalità del club e della gente che lo sostiene, in quella sorta di piccolo Galles nostrano, con poche pecore ma molto agribusiness.
I meno addentro alle mentalità locali potrebbero scambiare l'annuncio come una rottura di un fantomatico "unanimismo nazionale veneto", raccoltosi per necessità se non per amore attorno alla bandiera bianco verde della Benetton Treviso, cui s'è "piegata" con molto realismo persino la storica rivale Petrarca. Nella realtà, chi segua le vicende del rugby con un minimo di attenzione ben sa che Rovigo s'è sempre chiamata fuori da ogni prospettiva regionale. Il punto veramente qualificante dell'accordo, la notizia direbbe il giornalista, più che il distacco dai destini di Treviso (mai stati uniti) è piuttosto l'abbozzo si identificazione di una strategia per l'agognata "via polesana all'autonomia": padroni a casa loro, almeno nel rugby. E se son rose ...
"Co' Rovigo no' me intrigo" cioè con Rovigo non ci si interconnette, non val la pena di stabilire interscambi, si dice nel resto del Veneto. E' un sentimento di distacco più che ricambiato, direi ostentato quasi a mo' di senso identitario dai Rodigini stessi. A partire ovviamente dal "bersaglio" favorito, la limitrofa Padova, un odio atavico che non si spiega con inesistenti conflitti, come ce ne furono tra Padova e Vicenza, Verona, Venezia; probabile che il problema fosse la provenienza di molti dei Paroni dei latifondi bonificati, anche se sovente i proprietari ultimi eran antiche e distaccate famiglie patrizie veneziane.
In effetti sin dal crollo dell'Impero d'Occidente, quella che si estende tra l'Adige e il Po o meglio, tra i Colli Euganei e le prime propaggini dell'Appennino Romagnolo era una terra di confine, acque e terre in costante e mutevole sovrapposizione. Quando Carlo Magno a fine dell''Ottavo Secolo tracciò i confini coi territori che aveva promesso al Papa (e mai diede tutti), partì da Luni sulla costa tirrenica, passò per Modena e Mantova ma non finì a Ravenna sulla costa adriatica, bensì più a nord del Polesine, a Mons Silicis sui Colli Euganei: in mezzo c'era la frontiera ideale dai tempi di Longobardi ed Esarcato, il territorio cuscinetto perfetto, fatto di paludi poco popolate.
Terra di frontiera il Polesine rimase per secoli, anche dopo l'incorporazione nella Serenissima; era un piccolo Far West senza oro e indiani ma con nuove terre da coltivare man mano che veniva bonificato, da cui investimenti fondiari, necessità di braccia e possibilità di sfamarsi. Come tutte le "Basse" venne popolato con genti "di risulta": ex soldati S-ciavoni (slavi), migranti per fame dalle montagne, galeotti etc. Sviluppatasi la città e una borghesia, i distinguo identitari col resto del Veneto, tolta la sola Beneamata, riguardavano come detto particolarmente la Città del Santo, ed erano coltivati dalle generazioni borghesi, cresciute controvoglia "fuori sede" quando c'eran solo le Università quelle "vere" (Padova, Bologna, Pavia, Pisa ...; altro che, senza nulla togliere, Camerino o Ferrara); il travaso al rugby fu un passo breve e impercettibile.
Il tutto per giustificare che siamo in linea con sempre, l'annuncio del "gemellaggio" con gli Ospreys non segna rotture o sorprese clamorose, nè dal punto di vista rugbistico nè tantomeno culturale - cose che a Rovigo, ci consentirete il sarcasmo finale, in larga parte coincidono. Era solo una scusa anche nostra, per fare una ampia planata dal Mons Silicis di Carlo Magno e poi di Federico II, attraverso la Bassa padovana giù verso sud e a est, nella Terra dei canali in Mezzo ai Fiumi e nel Delta.
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