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Ci sono concerti che piacciono e fanno star bene, altri che annoiano. Alcuni deludono, altri esaltano e fanno danzare sudati per un paio d'ore di felicità. Infine ci sono concerti, rarissimi, che ti restano dentro. Show che non si cancellano dalla mente, il cui ritmo ti torna in continuazione, con le melodie che ti suonano nella testa. Sono concerti che un po' ti cambiano. Quello italiano della Royal Southern Brotherhood è stato uno di questi momenti magici per me.
Fin da prima che cominciasse, quando ho sbirciato i musicisti, bellissimi, un po' pirati ed un po' cowboy, seduti a cenare. Fin da quando il leggendario chitarrista nero Super Chickan Johnson, che avrebbe suonato da supporter, è salito sul palco con la sua silouette enorme da bracciante nero per il soundcheck e al primo giro di chitarra ha catturato l'attenzione di chiunque si trovasse nella piazza. Si chiama personalità, si chiama talento, e non lo vendono.
Alla fine sono saliti loro, con la flemma di chi ha intenzione di rullare a lungo sulla pista prima del decollo, con il magnetico Cyril Neville al centro del palco alle percussioni, il fratello più giovane della più nobile e malfamata famiglia creola di New Orleans. Alla sua destra il biondo Devon, generato da altrettanto nobili lombi, a cantare alla Steve Winwood e suonare la chitarra alla Carlos Santana. Alla sinistra Mike Zito, chitarrista low profile del midwest, all'opera fra St.Louis, Texas e New Orleans.
Un incantesimo che mi ha avvolto nelle spire del magico voodoo e mi ha marchiato, per sempre, con il segno dei fan della fratellanza. La cronaca parla di otto pezzi, io ne ricordo cinque (tanto il tempo mi è corso veloce), prima che lo scontro fra l'afa della Louisiana e la brezza della Valtrebbia evocasse una tempesta, che si è trasformata in una grandinata memorabile. Peccato non aver goduto di tutto lo show, peccato aver perso l'occasione di scambiare quattro parole con i fratelli reali, ma, come si dice, la rosa che più amai è quella che non colsi, non è così?
I Brotherhood mi sono rimasti dentro, e per molti molti molti giorni non ho fatto che far suonare sullo stereo e sull'autoradio le canzoni di Meters, di Neville Brothers, della RSB, di Cyril Neville, di Devon Allman, di Mike Zito, di Allan Toussaint, di Willy DeVille, di Dr.John, di Mason Ruffner.
Ed è di questi dischi che vi racconto in questo post.
La Fratellanza Reale del Sud è un supergruppo che si è coagulato quasi per caso fra Cyril, il più giovane dei Neville, ma di una generazione più vecchio di Zito e di Allman, attorno ad un denso boogie soul rock della Louisiana. Il disco, il secondo in studio, si intitola heartsoulblood, scritto così, tutto d'un fiato e senza spazi, ed è stato prodotto da Jim Gaines e registrato a Maurice in Louisiana. È un gioiello, ve lo svelo subito senza far giri di parole: rock denso ed intenso, come ne avete ascoltato dai Traffic di Steve Winwood e Jim Capaldi, o magari dai Little Feat di Lowell George. Un disco potente, d'urgenza, di corsa, che tralascia i dettagli per spendersi nel ritmo di quei treni diesel che scorrono sui binari da costa a costa. Un disco che è stato pensato anche per piacere, per essere trasmesso in radio e magari per vendere qualche copia, pur in questi giorni bui in cui l'umanità vive senza musica. Un disco fra rock'n'roll (come quello intitolato proprio così, scritto da Cyril per evocare la Silver Bullet Band), soul nero (come She's My Lady), reggae, tanto boogie e tanto Groove (Groove On, il brano più orecchiabile) e poesia (Takes A Village, che evoca altri brothers, i Neville). Un disco che potrebbe essere mainstream, come era una volta negli anni buoni e come lo fu ancora una decina abbondante di anni fa quel Supernatural di Santana, ma con i Golfo al posto del Mexico.
Un disco caldo come l'estate, da ascoltare in movimento. Cinque stelle.
La buona notizia è che "chi vuol essere lieto sia" e chi vuole continuare a danzare dopo la dodicesima canzone, può continuare a farlo nel continuum creato dai dischi solisti dei tre leader, tutti stampati negli ultimi 12 mesi per la stessa casa discografica (Ruf) e dalle sonorità familiari.
Una specie di White Album solista complessivo di tutto il gruppo.
Il disco più simile a heartsoulblood, tanto da esserne indistinguibile, è Magic Honey di Cyril Neville, a dispetto del fatto che sia registrato altrove e con diversi musicisti - e a testimonianza della personalità del Roi, il Re della Southern Brotherhood, Cyril.
Bellissimo, boogie, bollente, funk, afoso, blues, stregato, nero, voodoo, poetico. Un disco che dimostra che esista ancora il filo magico che univa esperienza così lontane nello spazio e vicine nell'anima come i britannici Traffic ed i mai abbastanza celebrati Meters di New Orleans. Un ritmo, quello dei tamburi di Cyril, che fa vibrare e fa danzare. Cinque stelle.
E fanno 24 canzoni e 10 stelle. Dopo il Re arrivano i principi. Gone To Texas di Mike Zito & The Wheel è rock'n'roll frizzante dalle parti di Bob Seger, un uomo del nord (Detroit, Michigam) con il cuore al sud (Memphis, Tennessee). In Rainbow Bridge Mike duetta con Sonny Landreth, ma non ci sono virtuosismi in quest'album, solo solide storie rock, ispirate al riscatto di una giovane vita piegata all'eroina, grazie ad una ragazza del Texas, che ad un concerto una sera gli chiese l'autografo. Mike la guardò e scrisse: "portami in Texas con te". Basta chiedere, a volte.
Bellissimo disco, soul rock, mi ha ricordato anche quei due magnifici dischi di Gary US Bonds con la E Street Band. Sassofono e tutto il resto.
Quattro stelle piene, e fanno 37 canzoni e quattordici stelle.
Infine ci sono le 11 canzoni di Turquoise di Devon Allman, un disco più bianco (ça va sans dire), più rock. Un disco che rinuncia a virtuosismi di chitarra elettrica ed a rock blues di maniera per concentrarsi sulle canzoni, di cui Devon è un pregiato compositore e un cantante convincente. Le sue canzoni, pur sempre coerenti con la reale fratellanza, viaggiano dalle parti dei Muscle Shoals Studios di Memphis, ed evocano così quel rock fra Bob Seger e John Hiatt senza dimenticare xxx. È un disco sincero fino all'ingenuità, Turquoise, senza gigionate, senza - impossibile non cercare confronti - la poesia elegiaca dei momenti migliori del padre Greg (con cui Devon non è cresciuto ma ha riscoperto oggi, anche suonando spesso e volentieri con la ABB), con il motore sempre a pieni giri a correre per le piatte distese che portano all'ovest. Chitarre elettriche, chitarre acustiche, boogie e ballate, un suono pieno e solido. Un omaggio agli Heartbreakers la cover di Stop Dragging My Heart Around, latina There's No Time (avrebbe potuto senz'altro far parte del citato Supernatural), acustica Yadira's Lullabye (una serenata all'amata compagna, suonata al telefono nelle notti in tour), soul tutto il resto. Forse niente picchi, senz'altro niente valli. Tre stelle piene, perché no?
E fanno 48 canzoni e 17 stelle. Un White Album mica male, datemi retta, un poker d'assi.
Ma, come diceva d'abitudine un grande: "one more thing, un'altra cosa". Non è finita. Forse è una scala reale.
Nel 2013 è anche uscito il disco, speciale davvero, di Aaron Neville. Aaron è una leggenda americana. Con la sua voce angelica piazzò negli anni ruggenti un singolo nelle classifiche e nell'immaginario del R&R, Tell It Like It Is. Poi conobbe alti e bassi, fama e fame, circuiti di serie B e qualche soddisfazione con i fratelli e con Linda Ronstadt. Una carriera nelle mani dei produttori, da cui la sua anima soul è uscita a volte immacolata, a volte macchiata dal compromesso. Ma come nelle favole a lieto fine, This Is My Story, prodotto da nessuno meno di Keith Richards, è il capolavoro. Un disco perfetto: minimale, asciutto, affilato, tutta voce e rock'n'roll. Richards alla chitarra elettrica, Benmont Tench alle tastiere, non so se mi spiego, è una perfetta colonna sonora di un film di Tarantino o comunque di un gran film americano alla Fandango, con cover irresistibili, pure e luminose come diamanti, di classici del rock come Money Honey, My True Story, Gypsy Woman, Be My Baby, Under The Boardwalk, This Magic Moment, Goodnight My Lover.
Bello e blu come Le Chat Bleu, lo dico per invogliarvi a rendere merito ad un sovrano, Aaron Neville, ma è un complimento per il compianto Willy. Sei stelle, si può?
Il mio programma è quello di scrivere un gran capitolo intitolato New Orleans sul lato B di Long PLaying (una storia del Rock); per chi è impaziente ce n'è già uno intitolato The Big Easy su Perché non lo facciamo per la strada.
La colonna sonora naturalmente è quella dei cinque dischi di questa recensione. Trust me.
Poi tornerò a New Orleans e busserò alla porta dei Neville (credo di conoscere l'indirizzo di Art).
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