Rubber (2010)

Creato il 16 settembre 2011 da Elgraeco @HellGraeco

Eh… la diegesi. Ovvero, ciò che alcuni recensori invocano per riempire di fuffa i loro scritti. Questo film, come tutte le opere concepite per narrare, ne possiede una. Ma a noi non interessa. O forse sì, anche se non ne abbiamo coscienza. Vediamo un personaggio femminile, bastano poche inquadrature e ce ne innamoriamo. Fa parte anche lei della fottuta diegesi.
Rubber mi ricorda il teatro dell’assurdo. Genere da me non particolarmente amato, perché sempre sovraccarico di concettualità che, alla lunga, stufa. Difficile credere che uno pneumatico che se ne va a spasso a schiacciare robe possa rappresentare un’idea, un archetipo. Forse sì, o forse no.
Forse a parlare, o a scrivere, è il maledetto critico in me, quello che ho seppellito anni fa, quando mi accorsi che stavo diventando un insopportabile stronzo con gli occhiali, stitico e arrogante, e decisi di spettinarmi e farmi crescere un po’ la barba, È stato allora che è nato Hell, prima che ne conoscessi il nome.
Rubber me l’ha segnalato Alice, dicendomi che mi sarebbe piaciuto. E non sbagliava. M’è piaciuto, infatti, e sono qui a parlarne.
Ma voi, attenzione, se volete vederlo sappiate che ci sono dieci minuti buoni da superare. I primi dieci, durante i quali il tutto sembra una specie di sketch teatrale, improvvisazione satirica su un canovaccio, quello della creatura aliena che assume autocoscienza, si mette in piedi barcollando, e se ne va a zonzo facendo esperienza. E già questo stabilisce un confine importante: qualunque tipo di vita conosce una cesura nella morte di un’altra (forma di) vita. Morte causata per sopravvivenza, per sostentarsi. Quando diviene divertimento, ecco che l’animale si tramuta in essere umano, o qualcosa di molto, molto simile a noi. In questo caso, stiamo parlando di uno pneumatico.

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E che c’è di strano? Una ruota di gomma va bene come qualsiasi altro attore. Lo Pneumatico è insensibile come The Hitcher, dotato di telecinesi in grado di far saltare teste come fosse uno scanner e, in più, lo fa per vivere. Accumula esperienza, come un bambino che ammazza gli insetti, staccando loro zampa dopo zampa. Solo che lui li fa esplodere. E… ah sì, gli piace guardare corse automobilistiche in tv, seduto nel vostro salotto, magari.
Ora, c’è la scena principale, costituita dalla gomma che va in giro lungo una statale desertica, incocciando gli abitanti di un motel e di altre attività che sorgono lungo l’arteria, e c’è il pubblico, nella teoria che vuole lo pneumatico attore principale e insieme villain di uno spettacolo messo su a uso e consumo di una platea di personaggi che osservano il tutto a distanza di sicurezza tramite binocoli. Parte del cast è consapevole di girare un film su una ruota assassina, parte no.
Gli spettatori sono composti da archetipi sgradevoli, di quelli che tutti noi abbiamo incontrato in una sala cinematografica: 1) la tipa che fa domande idiote fino all’ultimo momento, ad esempio se il film sia a colori o in bianco e nero; 2) i nerd che parlano e commentano e rompono le scatole a chi vuol vedere il film; 3) la signora spiritosa; 4) il pirata che riprende con telecamera per poi distribuire illegalmente.
Siparietti divertenti che ottengono due risultati: il primo, una satira attuale, ma anche scontata su entrambi i mondi, ovvero quello del pubblico e quello di chi col cinema ci vive e guadagna; a netto discapito dei secondi accusati di avvelenare gli spettatori con trame che non durano neppure metà film e poi naufragano, perché tanto è tutta finzione.

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Il secondo risultato è che distoglie troppo l’attenzione dal “film” che, come detto prima, superati i dieci minuti iniziali, riesce persino divertente. Ovvero, non capisco che bisogno c’era di rinunciare al confortante territorio del b-movie, fatto di poltiglia splatter, morti esplosive, nudi gratuiti e situazioni folli, per insistere sul metacinema e sulla messinscena metaforica del mondo dello spettacolo, delle sale cinematografiche e persino, sul finale, della critica da parte dello spettatore furbo. La cui saccenza, per contrappasso, si rivolge contro sé stesso. Divertente, lo ripeto, ma a un certo punto mi sarebbe piaciuto seguire solo la storia principale, che sfoggia un intreccio elementare, e lineare, con protagonista uno pneumatico assassino. Che prima ammazza “per conoscenza” e poi, avendo visto il massacro dei suoi simili, ovvero pile di vecchi pneumatici dati alle fiamme dagli sfasciacarrozze, diventa vendicatore della sua specie, diretto verso Hollywood. E in questo trascende, ancora una volta, il suo ruolo di semplice mostro, per prendersela con quegli autori che, avendolo creato, non gli hanno concesso un finale degno. Ma attenzione, la sua furia trascende anche il disagio dello spettatore tradito e diviene concetto.

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O forse, come al solito, è il maledetto critico dentro di me che parla e vomita sulle vostre facce quello che ha letto su decine di volumi, riguardo a storie, narrazione e simbolismi vari. Per fortuna ho dimenticato la gran parte dei paroloni e l’abbondante aggettivazione.
Piccola menzione d’onore per Roxane Mesquida, l’attrice protagonista. Non so quale sia il suo ruolo. Non è una scream-queen, nel senso che non urla. Non è un personaggio che rappresenta la donna stupida, però le fanno fare la scena della doccia. Scena che, come sappiamo, è marchio di fabbrica di un modo di fare certo cinema. Si sarebbe detto gratuito, eppure lo sceriffo, col suo discorsetto iniziale sul totale non-sense non solo delle scelte registiche, in base a dettagli e colori, scelti di volta in volta a caso, ma della vita stessa che altro non è che un’apoteosi del gusto personale che annichilisce ogni valore, rende di nuovo quella stessa scena, la doccia, imprescindibile. Dona spessore emotivo e morboso allo pneumatico che spia la donna nuda dalla fessura della porta. E rende indimenticabile il vero gusto, quello voyeuristico, che c’è dietro a noi spettatori. Vogliamo guardare. E, al di là di tutte le sovrastrutture che abbiamo creato, c’è stato un tempo in cui per intrattenere bastava un pazzo assassino e una serie di vittime squartate.
Le motivazioni sono roba per i critici. E anche le conseguenze.

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