di Michele Marsonet. Sui giornali della Repubblica Popolare Cinese sta uscendo, in questo periodo, una quantità impressionante di articoli riguardanti la necessità di adottare la “rule of law”. Durante un recente soggiorno per motivi di lavoro a Pechino mi è capitato personalmente di leggerne almeno uno al giorno (e a volte due) nei numerosi quotidiani pubblicati in inglese, articoli spesso scritti da esponenti di spicco del Partito comunista o da intellettuali e docenti universitari che gravitano intorno a esso.
Lo stesso Presidente Xi Jinping ci sta, per così dire, “mettendo la faccia”, esortando in discorsi e interviste l’apparato a procedere celermente in tale direzione, e sembra avere al riguardo l’appoggio completo dell’attuale leadership. Ne è riprova il fatto che l’argomento figura al centro dell’agenda dei lavori fissata per il prossimo Plenum del Comitato centrale del partito, nel corso del quale verranno illustrati i vantaggi derivanti da una strategia di questo tipo.
Cosa sta accadendo, dunque, in Cina? La questione è tutt’altro che banale, ove si rammenti che “rule of law” è un concetto – di origine inglese – poi diventato uno dei punti di forza caratterizzanti le democrazie liberali dell’Occidente. In quanto tale non fa parte del vocabolario politico cinese, all’interno del quale non era infatti utilizzato in precedenza. Tranne i casi in cui veniva criticato quale esempio paradigmatico dei trucchi e delle falsità dell’ideologia “borghese”.
Per quanto conosciutissimo, mette conto fornire qualche ragguaglio sul suo significato. Per “rule of law” s’intende il principio che debba essere la legge a governare una nazione, escludendo pertanto decisioni arbitrarie assunte da funzionari governativi o comitati politici. Ne consegue che tutti i cittadini sono sottoposti alla legge, ivi inclusi gli stessi legislatori. Una società che adotta tale principio è in automatico contrasto con ogni tipo di dittatura, di autocrazia, di oligarchia e di leadership collettiva, dove chi governa si reputa – per motivi diversi – al di sopra della legge. L’assenza del principio conduce a corruzione diffusa e alla mancanza di strumenti atti a correggere gli abusi, nonché all’impossibilità di poter cambiare i governanti mediante lo strumento delle libere elezioni.
Fornire una risposta alla domanda di cui sopra: “cosa sta accadendo in Cina?”, è meno difficile di quanto si creda. Già Deng Xiaoping aveva inventato la strana espressione “economia socialista di mercato”, un vero e proprio ossimoro, utile però per tener buoni gli ideologi del partito spingendo al contempo il Paese sulla strada del capitalismo (poiché di questo si trattava, anche se tuttora le autorità di Pechino si ostinano a negarlo ufficialmente). L’attuale leadership sta tentando di effettuare un’operazione analoga, forse ancor più audace di quella che riuscì a Deng. Lo slogan questa volta è “Rule of law socialista con caratteristiche cinesi”. Che significa?
Semplicemente che a Pechino non v’è la benché minima intenzione di introdurre il multipartitismo e la libera concorrenza elettorale. Il partito comunista intende tenersi ben stretto il monopolio del potere e l’autorità assoluta che detiene in ogni ambito della vita sociale. Vuole tuttavia combattere l’endemica corruzione concedendo ai tribunali una maggiore autonomia e punendo i funzionari che impongono la propria volontà ai magistrati. Il tutto ponendo al centro della scena la costituzione, le cui basi dovranno d’ora in poi essere insegnate nelle scuole di ogni ordine e grado.
Il problema è che l’articolo 1 della costituzione della RPC è così formulato: “La Cina è uno Stato socialista sottoposto alla dittatura democratica del popolo”. Riflette in gran parte la costituzione sovietica del 1936 ma, in alcuni punti, è addirittura più arretrata. Nella ex URSS era contemplato – sia pure teoricamente – il diritto alla secessione, in Cina no. Nel modello sovietico esisteva il sistema federale, mentre la RPC si autodefinisce come uno Stato unitario multinazionale (ogni ipotesi di federalismo è esclusa).
Non si capisce bene, pertanto, come uno strumento così vetusto possa costituire la chiave per introdurre la “rule of law”. La carta costituzionale parla di “diritti umani”, ma a Pechino sostengono che tale espressione ha un significato diverso rispetto a quello occidentale. La persecuzione dei dissidenti e la repressione delle minoranze etniche, per esempio, sono considerate legittime poiché salvaguardano l’unità e la stabilità della nazione. E molti altri casi si potrebbero citare.
E’ stato notato che, attribuendo tanta importanza alla costituzione, l’attuale gruppo dirigente di fatto incoraggia i dissidenti a venire allo scoperto e le minoranze etniche a reclamare il rispetto della loro diversità. Tuttavia il comportamento del governo cinese in occasione delle proteste a Hong Kong (tuttora in corso) lascia intendere che il partito non ha intenzione di autorizzare libere elezioni in alcuna parte del Paese. Se lo facesse, infatti, si avrebbe subito l’effetto domino.
Si può concludere che l’enfasi posta su una “rule of law” opportunamente adattata al contesto cinese è un’abile mossa propagandistica. Pechino non vuole superare certi limiti ben rammentando Gorbaciov e la dissoluzione dell’URSS. Eppure, approfittando dell’attuale crisi americana, la Cina si sta proponendo come modello politico e sociale alternativo su scala globale. Non avrà certamente successo in Occidente, ma è probabile che in altri contesti l’esempio cinese possa essere considerato un’alternativa plausibile alla democrazia liberale.
Featured image, The Great Hall of the People in Beijing, where the National People’s Congress convenes, author Thomas.fanghaenel, source Wikipedia