di Pietro Acquistapace
I recenti colloqui tra Unione Europea e Russia a San Pietroburgo si sono conclusi nel peggiore dei modi per entrambe le parti. Infatti non si è arrivati alla firma del nuovo accordo di partenariato e cooperazione (APC), scaduto nel ’97 e prorogato fino al 2007, ora in fase di revisione. A contribuire all’insuccesso, nonostante gli accordi in molti campi, ha in gran parte contribuito la questione del prezzo del gas, la Russia infatti si rifiuta di rivedere le condizioni di favore concesse all’epoca della stipula allorché il paese era considerato “in via di sviluppo”.
L’APC è parte integrante di tutta una serie di accordi che l’UE ha firmato sul finire degli anni ’90 con vari paesi dell’Europa Orientale, del Caucaso, dell’Asia Centrale e, appunto, la Russia. L’obiettivo dichiarato era di quello di favorire il processo democratico dei paesi firmatari nonché contribuire al loro sviluppo economico attraverso la cooperazione in una vasta gamma di settori. L’accordo va quindi visto alla luce del processo di avvicinamento dell’UE alla Russia di Eltsin, allora alle prese con i problemi derivati dalla dissoluzione dell’URSS.
La motivazione ufficiale con la quale Putin ha annunciato il mancato accordo sottolinea la volontà di non creare un precedente che potrebbe costringere la Russia a rivedere i rapporti anche con gli altri paesi membri del WTO, organizzazione alla quale il primo produttore mondiale di gas è stato recentemente ammesso. Da parte europea è giunta l’amara ammissione della Commissione che ha sottolineato come molti paesi membri dell’UE, stipulando accordi bilaterali con la Russia, di fatto impediscano la nascita e l’efficacia di una politica europea comune sul fronte energetico.
Quasi contemporaneamente la Russia deve registrare un altro mancato accordo, questa volta con la Cina. La visita di Putin a Pechino è stata l’occasione per la firma di ben 17 trattati riguardanti i campi più diversi, ma tuttavia anche in questo caso non si è arrivati alla definizione di un prezzo concordato per la vendita del gas russo. La Cina, primo importatore di gas al mondo, chiede alla Russia, primo esportatore, un sostanziale sconto visti i volumi di acquisto. La Russia al contrario pretende di applicare alla Cina lo stesso prezzo che pagano i paesi europei. E la questione sembra rivelare diverse crepe nella leadership russa di settore.
Putin si trova di fronte ad un dilemma relativo a Gazprom, ossia quello di farne un attore efficace in un mercato sempre più dinamico. Il presidente russo ha più volte annunciato la necessità di una modernizzazione di Gazprom che tuttavia deve trovare i fondi per dotarsi delle tecnologie necessarie per competere nel mercato odierno. Il grosso problema è dove trovare i fondi. L’esportazione russa per il 60% si rivolge al mercato domestico che tradizionalmente ha tariffe agevolate, da qui la rigidita’, quasi sovietica, di trattare la questione del prezzo delle esportazioni, al punto di arrivare a rinunciare ad aumentare l’esportazione verso l’Europa (come era invece previsto nei piani di Gazprom). Le alternative non sono molte: o alzare le tariffe del mercato domestico, danneggiando l’industria metallurgica in mano agli oligarchi che non sarebbero certo contenti, o mantenere alte tariffe di esportazione arrivando, come si e’ visto, a mancati accordi e ingenti perdite dato che “clienti” come l’UE stanno diversificando le proprie fonti di approvigionamento.
Una situazione complicata quindi, che frena i progetti di sviluppo di Gazprom che potrebbero portare alla ricerca sempre più frequente di partners per lo sviluppo dei vari progetti, come già avviene nel caso del South Stream (a capitale tedesco) e del gasdotto Shtokman, destinato allo sfruttamente del gas artico e progettato con capitale francese. Ma sara’ Putin la persona giusta per rendere meno rigido e burocratico il sistema energetico russo, fino ad oggi forte del suo monopolio, facendone saldo attore di un dinamico mercato globale?