1 agosto 2013 Lascia un commento
Forse sono io che prendo le cose dal lato sbagliato ma di un artista, m’interessa la sua arte e dell’uomo solo le informazioni all’arte legate e per questa ragione non comprendo dove sia l’interesse di sapere chesso’, cosa pensa Sakamoto del colonialismo statunitense. Voglio dire, delle 144 paginette scarse, dopo le prime 40 sappiamo a stento il mestiere dei genitori, dello zio appassionato di musica e poco altro se non infinita fuffa di un giornalista che non sa bene dove condurre l’intervista e probabilmente bara nella trascrizione delle domande.
E dire che Sakamoto ne avrebbe di storie, racconti peraltro rari e preziosi dal momento in cui non si puo’ definir un personaggio che ami rilasciare interviste.
Non tutto e’ da buttare certo, stiamo parlando di Sakamoto del resto, un musicista poliedrico ed innovatore, una delle rare menti pensanti che senza cedere troppo al mercato, ha saputo uscire dai binari dell’anonimato pur restando coerente a se stesso. Ci tiene alla sua indipendenza e lo ribadisce piu’ volte, e’ cosciente dei propri mezzi e dei propri limiti ed in cio’ l’abilita’ di rinnovarsi senza smarrirsi in pretenziose acrobazie.
Molto di quanto viene detto resta confinato nel decennio ’90, poco e nulla sugli Yellow Magic Orchestra e cio’ basti a definire un libro di conversazioni complessivamente scarso ed incompleto.
E’ che in fondo, il materiale poteva andare bene per un lungo articolo su una rivista specializzata, sforbiciando qua e la’ per eliminare le parti inutili, mentre invece si e’ voluto conservare tutto, allungando il brodo per farci saltare fuori un libro da vendere a caro prezzo.
Per conoscere Sakamoto vale la pena quasi tutto, non farsi prendere in giro.