Magazine Cultura
Nuragici, Filistei e Fenici fra i monti della Sardegna
di Maria Ausilia Fadda
(Per gentile concessione della fonte: Archeologia Viva).
L’antico villaggio alle falde del Gennargentu ha restituito una grande quantità di oggetti di bronzo e di ferro che lo attestano come il centro metallurgico più importante della Sardegna nuragica, in stretto rapporto di scambi con l’Etruria e il Levante tanto da riservarci la straordinaria scoperta di un’iscrizione in caratteri filistei e fenici graffita su un’anfora arrivata nell’isola insieme ad altri prodotti dell’Oriente mediterraneo.
Nel villaggio santuario di S’Arcu ‘e is Forros (Villanova Strisàili), risorge il più grande centro metallurgico della Sardegna nuragica, gestito da principi sacerdoti che coniugavano autorità religiosa, tecnologia e potere economico. Il sito era già noto dal 1986, e la campagna di scavo del 2010 si concluse con l’esplorazione di un tempio a megaron con altare interno e di un ambiente con forno per la lavorazione dei metalli inserito in un isolato abitativo composto da quindici vani che si affacciano su un grande cortile circolare con un focolare al centro. Nella parte più scoscesa di questo agglomerato si accedeva a un vano quadrangolare, un’officina, con l’ingresso ricavato da un varco aperto nel grande muro che delimitava esternamente tutti gli ambienti dell’isolato. Sul lato destro dell’officina si conserva un piano sopraelevato in muratura, sopra al quale sono i resti di quattro forni a fossetta a basso fuoco che fino al IX-VIII a.C. furono usati per la fusione del piombo e per il recupero del metallo delle offerte votive (in genere bronzetti figurati fissati con piombo su apposite basi). Uno dei pozzetti in prossimità dell’ingresso dell’officina, conservava diversi strati di piombo alternati a strati di argilla, con le impronte lasciate dal legno usato come combustibile. Sono stati trovati anche alcuni martelli in pietra con impugnature lavorate, che gli artigiani usavano per frammentare i pani di piombo. L’ultima fase di utilizzo di questi forni fusori può essere datata dalla presenza di una brocca askoide con ansa decorata a cerchielli e da una ciotola carenata, ambedue documentate tra le forme dei contenitori nuragici del IX-VIII a.C., che poggiavano sullo stesso piano di lavorazione al momento in cui l’officina fu abbandonata.
Lo scavo, nel 2011, di una capanna isolata ha restituito resti di brocche askoidi con decorazioni geometriche usate per contenere il vino che arrivava in Sardegna attraverso il mercato fenicio ed etrusco. Il rinvenimento delle brocche askoidi si può spiegare con l’esistenza del santuario, frequentato dai pellegrini che portavano offerte, e con la presenza di un complesso metallurgico capace di alimentare un vasto mercato. Le brocche askoidi di produzione nuragica ritrovate in Etruria (Populonia e Vetulonia), a Lipari, a Creta e a Huelva (costa dell’Andalusia), testimoniano una rete di scambi fra centri di estrazione e di lavorazione dei metalli che consolidavano i rapporti commerciali con la vendita di merci di lusso e di vino, offerto e consumato soprattutto nei santuari.
Un secondo gruppo di capanne è composto da dieci vani posti intorno a uno spazio comune con pavimentazione lastricata, sopra la quale poggiava una panchina di blocchi di granito. Sono stati indagati solo cinque vani. Nello strato pavimentale sono affiorati un fondo di brocca askoide e i frammenti di un’anfora di tipo cananeo con spalla carenata e due anse a sezione circolare. Sulla spalla carenata dell’anfora, databile fra IX e VIII a.C., si sviluppa un’iscrizione composta da caratteri filistei e fenici, incisi dopo la cottura. L’iscrizione, esaminata dal Garbini, uno dei massimi esperti di filologia orientale, costituisce il documento più antico lasciato da stranieri dell’oriente mediterraneo nelle zone interne della Sardegna e indica forse la matrice linguistica del protosardo. L’anfora di tipo cananeo, derivata da esemplari in uso nei centri fenici della costa siro-palestinese, è documentata dal XII-XI a.C., ma è presente in Occidente dall’VIII a.C. L’associazione di brocche piriformi e askoidi di produzione nuragica (IX-VIII a.C.) con anfore levantine era già stata registrata nell’emporio di Sant’Imbenia di Alghero, da cui hanno preso nome le anfore da trasporto introdotte nell’isola dai traffici levantini.
Questi raggiungevano anche la Spagna, partendo proprio dagli empori della costa nord-occidentale della Sardegna dove artigiani levantini e greci dell’Eubea, scambiavano esperienze con gli artigiani indigeni che riproducevano i contenitori da trasporto con tecniche di tradizione nuragica. Fra gli altri materiali venuti alla luce nella stessa capanna abbiamo oggetti in ferro: metà di una doppia ascia, un malepeggio (piccolo piccone), una lunga sega con due fori per fissare l’impugnatura, una lancia con immanicatura a cannone, frammenti di altre lance e pugnali. Insieme c’erano anche oggetti figurati in bronzo, come un toro dal corpo massiccio e coda rivolta in alto, un ariete, una protome di navicella a testa taurina, un’ansa di bacino con decorazione a cordicella, due spilloni con capocchie sferiche modanate, molte lamine accartocciate e una mano con foro passante in corrispondenza del polso relativa a un tipo di hydria (vaso per acqua) con anse a mani aperte finora sconosciuta in Sardegna. Ha le stesse caratteristiche delle anse delle idrie di Trebenische (Macedonia) conservate nel Museo di Belgrado. Sopra la pavimentazione affioravano frammenti di piccole asce di bronzo, una singolare testa di conocchia lavorata con verghe di bronzo, simile a quella proveniente da una tomba dell’emporio etrusco di Pontecagnano, in Campania, che tra i prestigiosi oggetti in bronzo del corredo aveva una navicella nuragica.
La rimozione delle lastre della rudimentale pavimentazione della capanna 2 ha messo in luce un pithos, ovvero un grande contenitore per derrate, usato come deposito di oggetti in bronzo, ferro e piombo, insieme a 186 chili di lingotti e panelle di rame, per un totale di oltre 400 chili di metallo. Questo ripostiglio sembrerebbe il risultato di un accumulo graduale di manufatti dal XII-IX fino al VI a.C. Il deposito all’interno del pithos conteneva seghe di varie dimensioni, scalpelli, punteruoli, cunei per lavori di cesello, martelli da calderaio, pezzi di un’incudine e lime, una delle quali con due lettere incise. E poi una colossale quantità di asce di vario tipo. In minore quantità sono presenti picconi, falci, lance di ferro, anse decorate di brocche e bacini. Non mancano le armi di bronzo di repertorio nuragico: spade a lama larga con accentuata nervatura mediana e spade tipo Monte Sa Idda con impugnatura fenestrata, punte di lance con immanicature a cannone ed elaborate decorazioni, puntali, pugnali foliati e numerose spade votive frammentate a causa dell’eccessiva lunghezza. C’erano anche diciannove fibule di bronzo che trovano affinità con quelle rinvenute in contesti etruschi della prima età del Ferro a Vetulonia, Populonia e in altri centri etruschi, che a partire dal IX-VIII a.C. avviarono intensi rapporti con la Sardegna. Fra gli oggetti d’ornamento troviamo diversi bracciali decorati a motivi geometrici, armille, anelli a fascetta, orecchini, bottoni, faretrine votive, vaghi di collana in bronzo e ambra, anelli in argento e un pendaglio ad ascia miniaturistica con superfici decorate. Fra i materiali di grande pregio si collocano diverse ghiere di tripode in bronzo che ripropongono modelli ciprioti. Nel medesimo ripostiglio, inspiegabilmente, si trovava uno scarabeo in faïance databile all’VIII a.C., probabilmente prodotto in Sardegna e attribuibile per la sua lavorazione al tipo aegyptiaka (già documentato nel tempio nuragico di Nurdole di Orani e a Sant’Imbenia di Alghero). Inoltre, un pendaglio di bronzo della dea Tanit portato nel santuario in un periodo più antico rispetto all’epoca cartaginese in Sardegna, dal momento che i materiali più recenti del ripostiglio si datano all’VIII-VII a.C.
Si può affermare che l’aspetto più significativo del sito è dato dalle attività metallurgiche finalizzate alla produzione di oggetti votivi, alla portata dei pellegrini che si recavano al santuario, e dalla presenza di officine che producevano strumenti da lavoro e armi. La lavorazione del ferro, richiedeva una notevole abilità tecnica, che gli artigiani nuragici di S’Arcu ‘e is Forros hanno dimostrato di possedere a partire dal IX a.C. realizzando due forni di arrostimento contigui. Un ulteriore ripostiglio, mimetizzato sotto una piccola nicchia, nascosto sotto un cumulo di lastre di scisto e granito, conteneva due bacini in lamina bronzea visibilmente anneriti dal fuoco, con due anse fissate a una placca, e un vaso per vino in bronzo con alto beccuccio (oinochoe), la cui ansa presenta una palmetta alla base. Si tratta di un contenitore di pregevole fattura che potrebbe essere arrivato nel santuario attraverso il mercato etrusco o fenicio. Sotto le brocche stava una navicella di bronzo con protome bovina, scafo a fondo piatto e bordo in rilievo; una doppia verga a sezione circolare converge nell’anello di sospensione sormontato da un volatile. Le pareti interne conservano evidenti tracce di bruciato, che dimostrano la funzione di lucerna della navicella. Il ripostiglio conteneva anche un martello, uno scalpello, un punteruolo, porzioni di scafo di un’altra navicella, misti a frammenti di lance, e di una piccola ascia bipenne. Associato ad altri oggetti di bronzo c’era un massiccio tripode di ferro. Non si conoscono nell’isola confronti con questo tripode, pertanto potrebbe essere stato forgiato dagli artigiani nuragici locali oppure arrivato attraverso il commercio etrusco e levantino. Il contenuto dei tre ripostigli (oltre mezza tonnellata di metalli) pone problemi di classificazione dei materiali, che possono essere stati tesaurizzati in un lungo arco di tempo durante la normale attività di lavorazione nelle officine di S’Arcu ‘e is Forros oppure essere stati nascosti per proteggerli da eventuali saccheggi durante un evento improvviso, non di tipo distruttivo ma che causò il temporaneo abbandono del luogo. In ogni caso la dimensione dell’attività fusoria di S’Arcu ‘e is Forros trova pochi confronti in Sardegna e conferma l’esistenza di un vasto commercio interno dei prodotti della metallurgia nei territori dell’Ogliastra, della Barbagia e del Gerrei.
Si può ipotizzare l’esistenza di uno scalo commerciale nel tratto di costa ogliastrina a ridosso dello stagno di Tortolì, subito prima del lungo tratto di costa che non offre approdi a causa delle alte falesie che le antiche rotte in direzione nord si trovavano ad affrontare per raggiungere gli scali più agevoli nel golfo di Orosei e di Posada. L’esistenza di un porto commerciale a ridosso dello stagno di Tortolì è confermata dai recenti recuperi di anfore fenicie, etrusche e greco italiche e di due coppe ioniche. L’esistenza di un approdo lungo le coste dell’Ogliastra dal XII-X a.C. può giustificare il ritrovamento di abbondanti prodotti ciprioti come lingotti di rame a pelle di bue, tripodi e grandi calderoni, che gli artigiani nuragici cercarono di riprodurre nelle officine fusorie locali. Probabilmente questi manufatti arrivarono in Ogliastra durante le prime occupazioni dei Popoli del mare che sbarcarono lungo le coste centro-orientali dell’isola e ben presto raggiunsero anche i centri più interni, dove si praticava l’arte della metallurgia già dal Bronzo recente. Nello scenario internazionale, la Sardegna era inserita lungo le rotte tra Oriente e Occidente, per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, per la ricchezza dei suoi giacimenti minerari e probabilmente anche per il ruolo dominante dell’isola nuragica nella rielaborazione di modelli acquisiti da ambiti culturali diversi nell’arte della metallurgia tra XIII-VI a.C. S’Arcu ‘e is Forros potrebbe rivelarsi il più antico e importante centro dell’isola per la produzione metallurgica, capace di avviare per primo scambi con l’Oriente.
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