In partenza (è questione di ore) per il paese-che-è-casa, la ‘povna saluta la piccola città, i blog-amici, gli impegni, il venerdì del libro, tutti quanti con uno s-consiglio. Con il quale stronca (con grande facilità, ché la materia si presta, ma non minore gusto) il cosiddetto caso editoriale dell’estate.
A lettura finita, La verità sul caso Harry Quebert convince molto meno che poco. Si può sorvolare sulla mancanza di un vero plot poliziesco, sullo stile raccapricciante e melenso, sul lessico povero e imbarazzante, su una struttura che scricchiola su piani temporali che ammiccano alternati (ma in raltà scivolano) solo per essere fighetta, su una metaletterarietà a specchio che sembra una goffa parodia di un manuale di mise en abyme o il cattivo riassunto dell’Atto di lettura di Iser, sull’intertestualità esibita (Nabokov, Rostand, Hitchcock, solo per citare i più ovvi, oltre a una spruzzata di Shakespeare, ché un Calibano deforme, un Prospero caduto, una postmoderna Miranda e un preteso Ferdinando garantiscono l’ennesima riscrittura di una Tempesta in salsa ginevrino-americana) gratuita e assolutamente ininfluente, sulla necessità urgente di imparare, almeno per sommi capi, la gestione del punto di vista. Si può sorvolare persino sulla assoluta scontatezza della soluzione finale, visto il whodunit prevedibile quando la lettura non è ancora arrivata a un quinto del romanzo.
Ma gli interrogativi più inquietanti sono di ricezione; e sono due, precisamente:
1) Possibile che i (rari) riferimenti fatti dalla critica a Twin Peaks debbano ridursi a boutade intertestuale di genere, mentre il sottotesto è, a mio avviso, assai profondo?
2) Che si è fumato, Marc Fumaroli, per scrivergli quella capo-recensione?
A Bompiani è riuscito il colpo grosso di pubblicare il quarto volume delle ‘Sfumature’ senza farlo passare per tale.