“In ricordo delle animas bonas che tornano . In ricordo del Samhain sardo. In orgoglio di tutte le donne sarde, forti come il granito”
Sa Koga
Non sapeva perché si fosse spinta così in là con la sua passeggiata pomeridiana. Era stanca, ma non riusciva a fermarsi e trascinava quella sua vecchia figura, tozza e morbida come un cuscino di piume per i sentieri appena tracciati del frutteto di Giovanni. Era vecchio anche lui ormai, come le sue piante, e da decenni non la corteggiava più se non con lo sguardo intorpidito di chi ha visto troppo.
Quel vento sibilante fra la criniera argentea, che le carezzava la cute liscia e velata di un sudore pallido, le dava l’illusione di correre. Gli alberi d’arancio inselvatichiti la salutavano cantando, mossi da quello scirocco caldo, di primavera che arriva, profumata. Il frutteto era in abbandono. Giovanni non aveva avuto figli e i nipoti avevano tutti lasciato il paese. Ora quel lenzuolo di terra somigliava a un giardino segreto, che solo Teresa sapeva come raggiungere. Vi raccoglieva piccole arance vanigliate, e lunghi asparagi forti e neri. Anche oggi ne aveva un mazzetto in mano e ad ogni taglio ringraziava i rovi che circondavano le piccole piante punteggiate di fiori bianchi.
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Non era la voce di Giovanni. Giovanni era a letto, Giovanni stava morendo. Era una donna che la chiamava. Da sotto le folte e ordinate sopracciglia cineree scoccò uno sguardo in direzione del suono.
Lasciò cadere quel mazzetto di asparagi che aveva raccolto. Non fecero rumore quando trovarono il terreno. Fu lo stupore della vecchia a riempire il luogo tutto invaso da cisto fiorito lucidato dal sole di primavera: una distesa di verde e bianco oltre il quale Teresa vide la donna vestita di lino chiaro.
<> domandò, ben consapevole che in cambio non avrebbe avuto risposta. Non fu un vero e proprio inseguimento, che il fiato la abbandonò presto, e il cuore impazzito, le consigliò di fermarsi. In quell’angolo di frutteto Giovanni molti anni prima le aveva raccontato d’amarla come si fa con una storia dolce. Lei si lasciò baciare, ma non si fece mai sposare: le streghe si amano, non si sposano.
Il suo destino lo avevano deciso le janas, la nonna le raccontava così tutte le sere d’inverno, davanti al fuoco della cucina. Era nata la notte di natale, le sue fasce profumavano di mandarino e la madre l’aveva affidata presto alla nonna: era la settima figlia, sarebbe stata una strega, questo era il destino delle settime figlie.
Teresa aveva un pallido ricordo della madre, durante la sua infanzia l’aveva vista poco, ma non la biasimava. Sette figli da sfamare erano troppi e le era grata per averla affidata alla nonna, vecchia fin da giovane, ma ricca di storie e di vita. Vivevano in una casupola di mattoni, canne e ginepro, senza porta ma nella quale nessuno avrebbe osato entrare senza invito. Sull’uscio una scopa con la chioma all’insù, e alle spalle il monte Linas a vegliare sulle due facce della medesima luna, crescente e calante. Teresa divenne presto la copia di quella vecchia, posata, consapevole del potere della parola e del gesto, innamorata del silenzio.
Fra il cisto e l’aranceto non distingueva più la figura di Clelia e quell’ansimare profondo le impose una sosta. Posò la mano tremula contro la corteccia liscia di un albero e scivolò a terra. Chiuse gli occhi, in attesa che il cuore le desse tregua. A occhi spenti il mondo di Teresa prese vita: in lontananza un ruscelletto gorgogliava fra le pietre lisce e fredde di fiume spoglio e una tortora tubava ritmica. Effluvi di ruta fresca e ginestra selvatica l’avvolsero in un alito di scirocco e piccole formiche scure presero ad attraversarle la mano destra, liscia e macchiata dagli anni, procurandole un solletico piacevole. Tutto intorno era ronzio di api che rubavano dai fiori del cisto, rosa e bianchi, polline prezioso.
Quell’intorpidirsi delle braccia e delle gambe le fece schiudere gli occhi pigramente. Il sole da dietro le fronde la raggiungeva come frammenti di lucide schegge preziose e come faceva da ragazza, cercò di fissare l’astro aranciato, stringendo gli occhi per non sentirli doloranti. Le scappò un sospiro: era in pace, era nel grembo della terra, della sua terra.
Non credeva l’avrebbe amata tanto, ma più invecchiava, più quell’isola le entrava nel sangue. Ne conosceva le stagioni, le erbe, le necessità, ne conosceva i capricci, e col tempo aveva imparato ad assecondarli.
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Sentì ancora, ma pensò che fosse sogno, e sognò. Ripensò alla povera Clelia. Dio non glielo doveva fare: morire come era morta lei, con la minestra sul fuoco, con i panni da piegare, e con una vita ancora da vivere era ingiusto. Ma la morte era cosa della vita.
Era delicata come un confetto Clelia, bella di una bellezza acerba che non voleva sbocciare. Quel giorno Teresa si era recata a casa sua poco prima di pranzo. L’aveva messa a letto, pallida come un tronco di ginepro mangiato dalla sabbia e le aveva detto d’aspettare ancora, che per fa nascere suo figlio la luna non era ancora buona. Ma lei non le aveva dato retta. Nemmeno la rosa di Gerico volle aprirsi e Clelia morì, perché così era scritto.
Quando anche il figlio morì, pallido, come succhiato da strega, in paese si ricordarono tutti che Teresa era la settima figlia, nata la notte di natale. Qualcuno iniziò a chiamarla sa koga.
Riaprì gli occhi quando il sole tramontava. <<Comà, beni>>, e la vecchia afferrò il braccio teso di Clelia che l’invitava. Si allontanarono verso il ruscelletto senza voltarsi.
di Claudia Zedda
Photo Credit – Federico Patellani
Pubblicato il 1 ottobre 2012 by Kalaris in Contusu, Sardegna