“Sa Reina” di Simone Caltabellota

Creato il 22 agosto 2013 da Sulromanzo
Autore: Alessandro PuglisiGio, 22/08/2013 - 11:30

Un mondo dentro cui, o sotto il quale, se ne nasconde un altro. È quello narrato da Simone Caltabellota nella sua seconda fatica narrativa dopo Il giardino elettrico (Bompiani), vale a dire Sa Reina, edito quest’anno da Ponte alle Grazie nella collana “Scrittori”.

Il volume porta un sottotitolo piuttosto importante e impegnativo: Un’avventura in Sardegna. E di avventura si tratta, senza alcun dubbio, un viaggio un po’ on the road e un po’ meditativo, un poco di corsa e un poco con calma. Ma, più che altro, a noi quel sottotitolo “pesante” ricorda il magnifico, commovente, divertente, istruttivo (nel senso più ampio del termine), esistenziale Sardegna come un’infanzia, di Elio Vittorini uscito nel 1936 col titolo Viaggio in Sardegna.

Sa Reina prende spunto da un viaggio compiuto dai tre protagonisti, partendo proprio dalla “regina”, un ulivo millenario che si trova nel Sulcis. Davide, il narratore, Leo, un suo amico con un amore quasi perduto e una vita da recuperare, in qualche modo, e Lucien, inglese, ex rocker, archeologo: tre personaggi complementari, tratteggiati con pochi e semplici tocchi, attraverso un linguaggio piano e scorrevole, senza indulgenze al barocco né scivolamenti nell’altrettanto nefasto naturalismo d’accatto.

Il romanzo acquista una piega del tutto diversa, però, ed è proprio questo l’elemento che rende Sa Reina un romanzo davvero bello, allorché tra le pieghe del viaggio si insinuano le sensazioni di uno, anzi più percorsi che si stanno compiendo dentro ciascuno dei personaggi, e che si compiono non già da ora, ma da tempi che furono, perduti ma non introvabili. All’ombra, sarebbe proprio il caso di dirlo, delle domus de janas, le «case magiche di pietra», le tombe scavate nella roccia, che sembrano, e in fondo lo sono, relitti di un mondo diverso, dove il contatto con l’ignoto era parte fondante della vita umana.

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Caltabellota è bravo ed efficace nell’oscillazione tra presente e passato, e fra reale e mitico. Non è dunque azzardato “battezzare” Sa Reina sulla scorta di una specie di realismo magico in salsa tutta italiana. I sopralluoghi dello sgangherato e incerto terzetto si contrappongono ai forti personaggi femminili, Vero, Sara, la madre di Davide, che sono forse, a voler ridurre ai minimi termini, tutte emanazioni di una stessa volontà femminile, di un medesimo principio vitale, di un’uguale polarità.

I racconti popolari si innestano nella realtà come i rami di un albero si “innestano” sul tronco, provenendo da esso, rappresentando qualcosa di diverso seppure nella stessa materia, da cui hanno tratto esistenza e continuano a prendere vita; così, se a un certo punto il narratore si chiede e ci chiede: «D’istinto cerco di nuovo nel vetro l’immagine del mio viso: in quale luogo del tempo sono davvero, in quale punto? Da quanto ho superato la metà della vita senza saperlo?» noi non ci stupiamo. In questo quadro, in bilico tra gli afosi pomeriggi sardi dell’infanzia del protagonista, i paesaggi aspri, i sogni spaventosi e persistenti anche dopo il risveglio, una “corte” di personaggi secondari accerchia, in qualche modo, Davide, Leo, Lucien e dà loro ancora più corpo, ancora più senso.

Il romanzo di Caltabellota, in definitiva, è tante cose allo stesso tempo, ma soprattutto una bella apologia della Sardegna e una bella “agiografia” di un eroe senza spada, con tanta paura e un passato alle spalle e dentro, da ripescare e portare alla luce, come un tesoro prezioso, come gli oggetti che operosi e timorati costruttori ponevano all’interno delle domus de janas, in tempi che sono passati ma, in fin dei conti, no.

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