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“Sabbie Mobili”, Rita Parisi

Creato il 09 settembre 2013 da Beachild

cop sabbie mobili
TITOLO: Sabbie Mobili
AUTORE: Rita Parisi (BIO)
EDITORE: Butterfly Edizioni

L’AUTRICE DICE CHE il primo ricordo che Chiara conserva di suo padre è un canotto verde e azzurro, una giornata al mare, la paura e l’emozione dell’imparare a nuotare; sullo sfondo, come in una fotografia, il volto austero di sua madre. Molti anni dopo, Chiara è su un treno per Trieste, adesso che la scoperta della sua sterilità, la depressione e i tradimenti hanno distrutto il matrimonio con Marco e che tutta la sua vita si è accartocciata come un foglio vecchio. E lì, sul treno, Chiara lascia scorrere i ricordi come un film dietro il finestrino per poi ritrovare, tra di essi, l’atroce verità che le ha cambiato la vita. Sabbie mobili è la fotografia di un’assenza, il ritratto in chiaroscuro di due madri mancate e di un amore segreto. La scrittura vellutata di Rita Parisi sa accarezzare con delicatezza temi scottanti come la sterilità e la depressione ed è, al tempo stesso, il fil rouge che lega i destini dei protagonisti nel loro fatale rincontrarsi e perdersi nel tempo.

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Il canotto è verde e azzurro, sembra una grossa ciambella che mio padre tiene con una sola mano.
La guardo volare la ciambella quando con uno scatto rapido lui la fa scivolare in mare.
Non sto nella pelle, eppure ho paura. Un paura fottuta.
Mio padre mi sorride emozionato.
“E’ tutto tuo, Chiara. Puoi salirci.”
Quasi me la faccio addosso. Fisso quel canotto che galleggia sulla superficie dell’acqua e resto imbambolata per un po’. Poi mi guardo intorno. Fusti sbilenchi piantati nella sabbia, gli ombrelloni, imponenti, dai colori vivaci e brillanti. Sdraio e lettini disposti in fila, ad accogliere corpi mollicci e sudati. Odore d’estate. Di cocomero e riviste sfogliate pigramente da mani annoiate. La spiaggia è un groviglio di gente. Piccole sagome trafitte dal sole. Un sole aggressivo, che nella sua fierezza mi fa sentire piccola e inutile. Una giornata d’agosto che brucia la pelle.
Faccio qualche passo verso il canotto. Verso le speranze di mio padre. Lui sembra intuire il mio disagio.
“Ti aiuto io a salire.”
Mio padre mi solleva di peso. Mi fa volteggiare, come una bambola.
“Com’è bella la mia bambina!” Esclama, ridendo.
In un attimo sono nel canotto e dondolo ad ogni onda, calma e serena. Allungo lo sguardo, cercando di riconoscere mia madre tra le forme indistinte che affollano il lido. L’ho lasciata sdraiata sul suo telo turchese, ad abbronzarsi. Profumava di crema solare, con i capelli raccolti in una coda alta e stretta. Mio padre le ha chiesto di venire con noi, lei ha sbuffato. Eppure sono sicura che sarebbe orgogliosa di me se mi vedesse adesso, impavida su questa ciambella, a sfidare la corrente. Voglio che sia orgogliosa di me, mia madre. Mi sporgo un po’, stringendo le palpebre. Eccola, è lei, è in piedi e fuma con voracità, guarda nella mia direzione. Mi sporgo ancora un po’, faccio per alzare la mano e salutarla, quando un’onda più alta delle altre mi sorprende. Il tempo di chiudere gli occhi. Un attimo e sono già in acqua, scivolando sempre più giù. Non so nuotare. Annaspo. Mi agito. Sto per morire, penso, bevendo a più non posso. Non voglio morire, penso poi e, con tutta la forza che ho, riesco a tornare su.
Le braccia di mio padre mi accolgono sicure.
“Stai bene, piccola mia?”
Mia madre è dietro di lui, con il viso impassibile e la sua sigaretta tra i denti. Resta in silenzio, in disparte, quasi non fossi sua figlia. Quasi fosse una spettatrice qualunque di quel pericolo scampato, una tra tante, in quella calca di curiosi con le braccia al cielo a ringraziare Dio, gridando al miracolo.
Respiro a fatica, sputando il sale che ho bevuto. Ansimante, a trattenere il pianto. Con la faccia schiacciata sul petto di mio padre. Avvinghiata a lui, in una stretta che mi pacifica.
La sua voce è ferma e trasparente. Sembra entusiasta.
“Va tutto bene, hai imparato a nuotare!”
Il primo ricordo di mio padre.
La prima volta che ho odiato mia madre.


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