di Amélie Nothomb
Voto: 9 (su 10)
— Cosa farai da grande? — le chiedevo, per il puro gusto dell’esperimento scientifico.
(Pagina 57)
Nessuna risposta.
A posteriori, il suo atteggiamento conferma le mie idee. I bambini che trovano una risposta a una domanda del genere sono falsi bambini (ce ne sono molti), oppure bambini che hanno il gusto dell’astrazione e della speculazione pura (come nel mio caso).
Elena era una bambina vera che non era portata per la speculazione. Perché quello sciocco interrogativo sarebbe stato come chiedere a un acrobata cosa farebbe se fosse ragioniere.
La Seconda Guerra Mondiale è finita nel ’45, ma all’inizio degli anni ’70 per i bambini del ghetto degli stranieri a Pechino l’armistizio è stato un errore. E la guerra riprende con ferocia e coraggio tra combattenti di tutte le nazioni, rigorosamente al di sotto dei 15 anni.
In questo clima bellico la piccola protagonista si trova a fare i conti anche con una forza ben più terribile e distruttiva della guerra: il suo primo, travagliato, amore.
Bellissimo libro, il mio preferito della Nothomb tra quelli letti finora. Dal punto di vista di una bambina tra i 5 e i 7 anni ci parla dei cosiddetti temi eterni: amore, odio, amicizia, guerra, e lo fa con un’ironia, una sagacità e una cultura eccezionali! Più di una volta leggendo non ho potuto trattenere il sorriso, e qualche volta anche il riso. Più di una volta ho riletto più volte qualche frase (molte delle quali riportate in basso, come di consueto) per quanto mi aveva emozionato alla prima lettura. Più di una volta sono dovuta andare a cercare informazioni su internet vergognandomi della mia Ignoranza su autori e opere citati nel libro.
Ma soprattutto quello che ho amato di questo romanzo è stata la descrizione dell’universo infantile, un po’ esasperato, quindi ancora più straordinario, ma non per questo meno realistico. I bambini sono praticamente i soli protagonisti; gli adulti, questi bambini decaduti che appartengono quasi ad un’altra specie, appaiono poco, e quasi sempre come guastafeste.
E poi c’è la Cina. In realtà la vediamo solo di sfuggita, relegati come siamo al quartiere di San Li Tun che, essendo la dimora dei diplomatici stranieri, era accuratamente tenuto isolato della “vera” Cina. Però c’è; anche con quelle poche frasi, nelle riflessioni di bambina e in quelle di adulta narratrice, anche solo per dire perché non se ne parla, c’è tutto un mondo cinese affascinante e contraddittorio: Non ci si lasci ingannare. In ultima analisi, la Cina ha in queste pagine lo stesso ruolo della peste nera nel Decameron di Boccaccio; se non se ne parla quasi mai è perché essa imperversa ovunque. (Pagina 85)
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Divertente, poetica epopea infantileScheda del libro
Titolo: Sabotaggio d’amore
Autore: Amélie Nothomb
Titolo originale: Le sabotage amoureux
Anno prima pubblicazione: 1993
Casa Editrice: Guanda
Traduzione: Alessandro Grilli
Pagine: 124
sito non ufficiale dell’autrice: Amélie Nothomb
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Un po’ di frasi
Al galoppo sul mio cavallo, sfilavo tra i ventilatori.
Avevo sette anni. Niente era più piacevole che avere troppa aria nel cervello. Più la velocità fischiava, più entrava ossigeno che faceva piazza pulita.
Il mio destriero arrivò alla piazza del Gran Ventilatore, volgarmente detta piazza Tien An Men. Prese a destra, per il viale della Bruttezza Abitabile.
Tenevo le redini con una mano. L’altra mano si abbandonava a un’esegesi della mia immensità interiore, carezzando ora il dorso del cavallo, ora il cielo di Pechino.
[incipit]
Ho sete. Mio padre mi dà una banconota per comprare da bere.
Vado in giro. Non c’è modo di comprare bibite colorate e frizzanti come in Giappone. Si vende solo tè. “La Cina è un paese dove si beve tè,” mi dico. Bene. Mi avvicino al vecchietto che serve la bevanda. Mi allunga una tazza di tè bollente.
Mi siedo a terra con questa tazza enorme. Il tè è forte e fantastico. Non ne ho mai bevuto uno così. Mi dà alla testa in pochi secondi. Sperimento il primo delirio della mia vita. Mi piace proprio tanto. Farò grandi cose in questo paese. Saltello per l’aeroporto girando come una trottola.
(Pagina 13)
Per la comunità straniera era difficilissimo raccapezzarsi. E non pochi diplomatici dicevano che in fondo non avevano alcun’idea di quello che succedesse in Cina.
Così i rapporti che dovevano scrivere ai loro ministeri furono i più belli e i più letterari delle loro carriere. Parecchie vocazioni di scrittore nacquero a Pechino, senza bisogno di trovare un’altra spiegazione.
(Pagina 14)
La guerra cominciò nel 1972. Fu proprio quello l’anno in cui ho capito una grandissima verità: a questo mondo nessuno è indispensabile, tranne il nemico.
Senza nemico l’essere umano è poca cosa. La sua vita è un tormento, un’oppressione di vuoto e di noia.
Il nemico è il Messia.
La sua semplice esistenza basta a dinamizzare l’essere umano.
Grazie al nemico la vita, questo sinistro accidente, si trasforma in epopea.
Così, Cristo aveva ragione a dire: “Amate i vostri nemici.”
(Pagina 16)
“L’acqua bolle a cento gradi.” Frase di una bellezza elementare, che lascia un po’ insoddisfatti.
Ma la vera bellezza deve lasciare insoddisfatti: deve lasciare all’anima una parte del suo desiderio.
Quanto a questo, la mia frase era bella.
Eccola: “Un paese comunista è un paese dove ci sono dei ventilatori.”
(Pagina 24)
Vialatte ha scritto questa frase meravigliosa: “Il mese di luglio è un mese assai mensile”. E’ stato mai detto qualcosa di più vero e di più perturbante sul mese di luglio?
(Pagine 25-26)
Definisco cavallo non ciò che ha quattro zampe e produce sterco, ma ciò che maledice il suolo e me ne allontana, ciò che mi solleva e mi costringe a non cadere, ciò che mi calpesterebbe a morte se cedessi alla tentazione del fango, ciò che mi fa danzare il cuore e nitrire il ventre, ciò che mi spinge a un’andatura così forsennata che devo stringere le palpebre, poiché anche la luce più pura non abbaglierà mai quanto la sferza dell’aria.
Definisco cavallo quel luogo unico dove è possibile perdere ogni ormeggio, ogni pensiero, ogni coscienza, ogni nozione di futuro, per essere solo uno slancio, una vela spiegata.
Definisco cavallo quell’accesso all’infinito, e cavalcata il momento in cui incontro le schiere innumerevoli dei Mongoli, dei Tartari, dei Saraceni, dei Pellerossa o di altri fratelli di galoppo che hanno vissuto solo per essere cavalieri, cioè per essere.
Definisco cavalcatura lo spirito che scalcia con quattro ferri, e io so che la mia bicicletta ha quattro ferri, e scalcia ed è un cavallo.
Definisco cavalierie colui che il suo cavallo ha sottratto all’insabbiamento, colui che il suo cavallo ha reso alla libertà che fischia nelle orecchie.
Ecco perché nessun cavallo ha mai meritato il nome di cavallo quanto il mio.
(Pagina 45)
Nel mio foro interiore ero convinta che non sarei mai diventata adulta. Il tempo durava troppo tempo perché mi potesse succedere quella cosa. Avevo sette anni: quegli ottantaquattro mesi mi erano sembrati interminabili. La mia vita era così lunga! La sola idea di poter vivere altrettanti anni mi dava le vertigini. Ancora sette anni! No. Sarebbe stato troppo.
(Pagina 56)
Gli adulti ci portavano la domenica a pattinare sul lago del Palazzo d’Estate: quelle spedizioni mi sembravano troppo belle per essere vere. L’immensa acqua ghiacciata che rifletteva la luce boreale e che urlava terribli rumori sotto i pattini mi estasiava a punto che mi veniva il mal di testa. In me non c’erano difese immunitarie contro la bellezza.
(Pagina 98)
Per colmo di crudeltà la neve.
La neve, che poteva pure essere brutta e grigia come la Città dei Ventilatori, era comunque la neve.
La neve, in cui i miei brancolamenti analfabeti avevano riconosciuto l’immagine per eccellenza dell’amore, il che non era certo arbitrario.
La neve, tutt’altro che innocente nella sua candida beatitudine.
La neve, in cui leggevo domande che mi facevano venire prima caldo e poi freddo.
La neve, sporca e dura, che finivo per mangiare nella speranza, vana, di trovare una risposta.
La neve, acqua esplosa, sabbia di ghiaccio, sale non dela terra ma del cielo, sale non salato, dal sapore di silice, dalla grana di gemma tritata, dal profumo di freddo, pigmento del bianco, solo colore che cade dalle nuvole.
La neve che ammortizza tutto – i rumori, le cadute, il tempo – per meglio esaltare le cose eterne e immutabili, come il sangue, la luce, le illusioni.
La neve, prima carta della Storia, su cui furono scritte tante tracce di passi, tanti inseguimenti spietati, la neve che fu dunque il primo genere letterario, immenso libro raso terra dove si parlava solo di piste di caccia e dell’itinerario del nemico, sorta di epopea geografica che dava ad ogni minimo segno il peso di un enigma – quel piede era quello di un fratello o di chi aveva ucciso quel fratello?
Di questo libro chilometrico e incompiuto, che potrebbe intitolarsi Il più vasto libro del mondo, non c’è rimasto un solo frammento – il contrario della biblioteca di Alessandria: tutti i testi si sono sciolti. Ma in noi deve essere rimasta una reminescenza remota, una sorta di angoscia della pagina bianca che mette una voglia terribile di calcare gli spazi ancora vergini, e istinto di esegeta appena si incrocia una traccia altrui.
In fin dei conti è la neve che ha inventato il mistero. Per la stessa ragione che è sempre lei ad aver inventato la poesia, il disegno,
il punto interrogativo – e quel gran gioco di tracce che è l’amore.
La neve, falso sudario, grande ideogramma vuoto in cui decrittavo l’infinito delle sensazioni che volevo offrire alla mia amata.
(Pagine 103-104)
Bisogna ammettere che il comportamento dei ragazzini di San Li Tun era la negazione assoluta delle leggi dell’ereditarietà. La professione dei nostri genitori consisteva nel ridurre il più possibile le tensioni internazionali. E noi invece facevamo l’esatto contrario. Ecco cosa vuol dire fare figli.
(Pagina 110)
Grazie a Elena, perché mi ha insegnao tutto dell’amore.
E grazie, grazie a Elena, perché è rimasta fedele alla sua leggenda.
[explicit]