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Sacra e profana la bellezza. Su “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino

Creato il 10 dicembre 2013 da Lucianopagano

 

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Quando “La grande bellezza”, di Paolo Sorrentino, nel maggio scorso è stato presentato al Festival di Cannes e, negli stessi giorni, è uscito nelle sale, uno dei temi sui quali si è subito insistito da parte della critica è stato il più evidente, quello forse più coinvolgente proprio per la stessa critica, ovvero sia il fatto che la pellicola di Sorrentino fosse una sorta di lucida critica, dal sapore vagamente felliniano, della città di Roma e di un indeterminato jet-set che in essa si muove, come una nebulosa.

Un po’ come se questo, insieme a altri del passato, fosse (solo) l’ennesimo film su Roma. Indubbio il fatto che molti dei personaggi ai quali si è ispirato Sorrentino potrebbero essere dei ‘tipi’, ‘caratteri’ realmente esistenti, inevitabile anche perché il grande cinema, come la grande letteratura, si nutre di questi compositi, veri e propri rifiuti spazzati via dalla realtà. Oltretutto quanto più ci si avvicina alla superficie, nel descrivere il mondo, tanto è più facile incontrare i propri conoscenti. Inevitabile anche perché nel nostro paese, la letteratura e la cinematografia, e di conseguenza anche la critica letteraria e cinematografica, transitano dalla Capitale, quindi è evidente che i primi ‘lettori’ di un fenomeno di questo genere non possono non appartenere a questo ambiente così circoscritto e allo stesso tempo così influente. Mi sembrava, leggendo certi articoli, di cogliere una filigrana sporca del manuale per diventare intellettuali redatto da Luciano Bianciardi, con tutti i consigli per i giovani Gambardella ante litteram che si avvicendano nella città eterna e che devono ‘simulare’ prima ancora di essere.

Allo stesso modo il paragone con Fellini e con la sua ‘Dolce vita’, molto più che con ‘8½’, mi era sembrato quasi automatico, come se una certa ‘distanza’ morale dalla narrazione, unita al cinismo, fossero più una scusa per liquidare l’immediatezza di alcune verità. Non ho creduto fin dall’inizio all’immagine offerta da questo tipo di lente deformante, perché c’erano alcuni elementi, soprattutto la fotografia e la musica, che mi facevano intravedere un utilizzo dell’immagine molto più che descrittivo, in questa pellicola.

È proprio grazie a un equilibrio tra montaggio (Cristiano Travaglioli), colonna sonora e fotografia (Luca Bigazzi), che l’occhio dello spettatore ha la possibilità di percorrere i diversi nuclei senza mai soffermarsi troppo, quasi che questo film presentasse un’analisi istantanea, senza troppi ragionamenti, delle profondità che si mascherano nella superficie. Si tratta della percezione immediata dell’oggetto così come è descritta nella ‘Fenomenologia dello Spirito’ di Hegel, qualcosa di cui, almeno fino a oggi, non si potrebbe dubitare, quell’agnizione bruta dove, per usare le parole di Jean Hyppolite: “il momento della coscienza compare come quello della separazione, della distizione fra soggetto e oggetto, fra la certezza e la verità”. C’è una volontà continua, che all’inizio sembra non conoscere cedimenti, che è quella di Jep Gambardella, teso nel suo non volersi occupare proprio della profondità, di ciò che sta dietro alle cose. Il vacuo è ciò che importa, ovviamente quando questo è il vacuo che avviene e ha dignità di esistenza nel recinto per animali anestetizzati, in quel vero e proprio acquario che è la casa con terrazzo in pieno centro, a Roma.

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L’inizio tuttavia è già inizio della fine, nel creparsi di questo quadro così splendido. Le cose compaiono e scompaiono, ma non come la giraffa del commiato di Romano – Carlo Verdone, che avviene in uno scenario felliniano, degno del nomen-omen scelto da chi a sua volta ha eletto Jep a suo unico confidente e amico. Quando le cose scompaiono, in quest’opera, devono pagare il loro pegno nel dolore. Non si tratta della bellezza del Nulla, né della possibilità di scriverci sopra un romanzo, come preconizzato nelle parole di Jep attraverso Flaubert. Si tratta piuttosto di un elemento isolato che, giorno dopo giorno diviene somma di elementi, fino a costruire una nuova coscienza e, in questa, far avvenire la volontà di recuperare il proprio rapporto umano con la realtà, prima, e poi con la scrittura.

Il percorso ascensionale, dantesco, di Jep Gambardella, fino al ricongiungimento con il proprio passato, ha una sua specularità nell’arte. Incomincia con la ‘fuffa’ della pseudo-performer che ha il pube tinto di rosso e con rasato il ‘logo’ falce & martello, si incrina con le foto ‘anche da nuda’ del ricco e annoiato personaggio interpretato da Isabella Ferrari e muta radicalmente quando Toni Servillo visita la mostra di un fotografo, impersonato dal giovane e talentuoso Ivan Franek, che ha fermato sulla pellicola, giorno dopo giorno, il suo volto. Nella storia qualsiasi di un volto Gambardella rivede la propria storia.

Col tempo mi sono accorto, riflettendo su “La grande bellezza”, che uno dei temi principali che fanno da filo conduttore del racconto in questa pellicola, è il dialogo tra il ‘sacro’ e il ‘profano’, un tema che ha come sfondo la città di Roma, che probabilmente unisce più di altre questi due elementi, proprio forse per il fatto di essere la sede ufficiale del nostro ‘sacro’ (il Vaticano, la Chiesa), e, di conseguenza, rendendo più facile un accostamento al profano. Detto questo il paragone tra la poetica presente ne “La grande bellezza” e certa scrittura/fotografia felliniane, è più facile accostando questo film a Roma o, addirittura, al Satyricon, prima pellicola che mi è venuta in mente vedendo il film di Sorrentino, proprio forse per via della fotografia e di quel ‘vagare tra gli inferi’ così simile al passeggiare solitario di Gambardella.

Non sono il primo, né l’ultimo ad accorgersi dell’importanza che hanno, in questa pellicola, le citazioni e i rimandi a Céline e al suo “Viaggio al temine della notte” (http://segnavi.blogspot.it/2013/06/la-passione-di-sorrentino-per-celine.html), già seminati in altre opere del regista, specie ne “Le conseguenze dell’amore”. Paolo Sorrentino sarebbe, per usare i criteri ‘morettiani’ (vedi il corto del regista romano “Il giorno della prima di Close Up”), un autore infante, molto meno che giovane, proveniente da una generazione che è sicuramente stata influenzata da certe letture & visioni, e che adesso ha raggiunto una maturità espressiva simile a quella di cui disponevano, tra gli anni Novanta e Duemila, autori come Virzì, Luchetti, Mazzacurati. Riconsegnare alle masse l’etica del disincanto e l’immagine spietata, ma poeticissima, del Voyage, è un merito per Sorrentino, l’ultimo che aveva portato Céline alle masse del pop nazionale, infatti, è stato un altro giovane autore, il trentaseienne Alessandro Baricco, nel suo Pickwick (1994).

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La morte, in questo gioco di rimandi tra sacro e profano, non è una cifra che ci permette di capire. La morte ne “La grande bellezza”, in tre casi, viene occultata, ci vengono presentate le sue premesse e le sue conseguenze, ma il ‘processo’ è nascosto; Elisa, per prima, poi Andrea (Luca Marinelli) e Ramona (Sabrina Ferilli) scompaiono. Ciò che interessa è lo squallore del momento, non tanto l’inadeguatezza nei confronti della morte, quanto l’impossibilità di cogliere un nesso con ciò che resta della vita. È il tempo, che scorre rapidamente nel montaggio a porre lo spettatore nell’obbligo di fare i conti in fretta con tutto ciò che accade. Tanto che al di fuori del tempo, ad esempio come succede con le epifanie del super latitante Moneta/Denaro, e fuori dal flusso vorticante della vita quotidiana di Jep Gambardella (Toni Servillo), il protagonista è spiazzato e lo spettatore trova un appiglio guardando al di sopra della corrente.

Il sacro e il profano tornano, in modo più prepotente, con l’ultimo dei nuclei narrativi, quello dedicato alla ‘Santa’, immagine speculare di Madre Teresa, della quale viene presentato anche l’aspetto spettacolare, sia nel pubblico che nel privato. In precedenza, durante una festa alla quale Jep era andato con Ramona, nella casa di uno dei più importanti mercanti d’arte della Capitale (Lillo De Gregorio), una bambina-artista, un monstrum di bellezza e inquietudine, aveva ritratto un fenicottero durante un action painting. Saranno proprio i fenicotteri, animali totem, a fare da tramite tra il cielo e la terra, il sacro e il profano, ricongiungendo a quelle “radici” di cui la Santa si nutre e che Jep riesce, nel percorso compiuto, a recuperare, riappropriandosi del sentimento di grande bellezza che aveva conosciuto da ragazzo, con Elisa.

Lo stesso sentimento di nostalgia e ritorno aveva fatto produrre a Jep Gambardella l’unica opera letteraria della sua vita. Era proprio la scomparsa di quel distacco, con molta probabilità, che lo aveva condannato a non scrivere più nulla, salvo poi fargli recuperare l’ispirazione nel filo delle cose accadute, nel passato prossimo immediato, di cui il film di Sorrentino, “La grande bellezza”, è un lungo e riuscito prologo.

Luciano Pagano


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