Qual'è
il
punto in cui la realtà incontra la finzione, e quali sono gli accordi
che permettono di intercettare la loro coabitazione all'interno nel cinema
contemporaneo. E' innegabile che dopo l'11 settembre la percezione delle
immagini non sia stata più la stessa. Gli aerei che si schiantavano
sulle torre gemelli sembravano il frutto del più spettacolare dei
blockbuster hollywoodiano ed invece rappresentavano la fine di un
epoca che si chiudeva in immane tragedia. Di fronte ad un qui ed ora
così amplificato il cinema si era spaccato letteralmente in due,
rimanendo indifeso rispetto ad un senso di assoluto talmente forte da
essere difficilmente riproducibile nella finzione dello schermo. Bisognava
non dico reinventare la settima arte, ma innestare in una forma
improvvisamente invecchiata un'attualità che solo il reale poteva darle.
Parlare del presente, oltrepassando convenzioni e simulacri esigeva
una formula che tenesse conto tanto nei mezzi produttivi (necessità di
apparati di riproduzione flessibili e poco ingombranti, troupe ridotte
all'osso) quanto nelle strategie narrative (sceneggiature ridotte
all'osso o praticamente inesistenti) di una realismo appena filtrato
dalla capacità demiurgiche del regista, e quanto mai aperto ad ospitare
brandelli di pura esistenza. Il cinema diventava sempre più documentario ("United 93", 2006 di Paul Greengrass), il documentario sempre più cinema (se ne potrebbero citare moltissimi, ma valga per tutti "Grizzly Man" di Werner Herzog) aprendo la strada ad un ibridazione che di li in poi avrebbe reso difficile catalogazioni e codificazioni in un senso e nell'altro. Per quanto gli riguarda il cinema italiano ha reagito a questa nuova istanza in maniera laterale e diremo quasi nascosta, iniziando una ricerca formale che il documentario ha assecondato fino a diventare l'avanguardia di un movimento pigramente assestato sulle sicurezze e gli incassi della risata e del buon umore. Pietro Marcello, Tizza Covi e Rainer Frimmel, Alfredo di Costanzo, Balsamo e Gabrielli ma anche Pippo del Bono ed il duo Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi appena visti a Locarno) sono solo alcune delle punte di diamante di un Italian doc proiettato meritatamente alla conquista delle manifestazioni più prestigiose del globo per la capacità di fondere in un solo movimento quello che accade con ciò che è predisposto. Fatti i conti con l'esigenza d'informazione e con tutto quello che ne consegue (il formato dossier, gli intervistatori invisibile, microfoni e telecamera fissa, fotografia improvvisata) questo cinema ha acquistato una fluidità ed una capacità di raccontare sempre più rivolta agli aspetti personali ed intimi dell'individuo. Il Journal ed in generale la messinscena della dimensione privata si è affiancata al reportage epocale ed all'istant movie, provocando una specie di rivoluzione culminata appunto nella vittoria veneziana di "Sacro Gra" di Gianfranco Rosi, leggittimazione ai massimi livelli di questo fenomeno. Il film di Rosi è per antonomasia epressione del tempo presente a cominciare dai presupposti produttivi, testimoniando un modo di far cinema che riesce a raccontare riducendo i costi (set prelevati dal quotidiano ed assenza di attori professionisti) ed al contempo a rafforzare il potere persuasivo derivato dall'essere rappresentazione di ciò che già esiste. Il raccordo anulare dunque e con lui il paesaggio umano e geografico che si sviluppa nelle zone limitrofe alla città capitolina. Un serpente che si aggomitola sull'urbe richiudendola in un vortice di movimento e decelerazioni. Da una parte il flusso di macchine anonimo e ripetitivo, dall'altra i personaggi di un umanità (intesa dal punto di vista emotivo) in via d'estinzione. Due poli opposti e coincidenti nell'andamento di un film che si mantiene nel particolare (in certi casi assomigliando ad un almanacco del giorno dopo pronto ad illustrare mestieri ed attitudini) ma al contempo diventa astrazione di un mondo che procede a scarto ridotto rispetto alla velocità della modernità, e per questo destinato a diventare la risacca di ciò che è diventato desueto: non solo il lignaggio aristocratico declassato a ricordo di un passato glorioso che esiste solo in qualche liturgia dimenticata ma anche il fotoromanzo girato usufruendo della comodità di una macchinetta fotografica digitale, al pescatore di anguille artefice di un'artigianalità solitaria ed ostinata, capace di far diventare importante un cibo dimenticato ed il palmologo intento a gareggiare con i cicli naturali ed i suoi rappresentanti, ed in particolare l'insetto che si deposita su quegli alberi fino a distruggerli.
Azioni inserite
all'interno di un esistenza che rimane sconosciuta come quella degli
inquilini del palazzo che si affaccia sulle strade del raccordo, intenti
a riportare le parole di un inquietudine vestita di abitudine e
rassegnazione simpaticamente proposta nellla sequenza che ci congeda da
un padre e da una figlia con quest'ultima che "mette a letto il padre"
preoccupato delle sorti sentimentali di lei. Rosi
lavora su un'oggettività rielaborata da un approccio che tiene conto
delle tecniche proprie del cinema di finzione, con persone
che recitano se stesse, una fotografia curata ed ubiqua (gli
interni del palazzo sono ripresi dall'esterno posizionando la telecamera
in un punto di vista immaginario e sospeso nel vuoto) ed una poetica
che deve molto alla commistione tra il naturalismo delle interpretazione
e la capacità di mettere in scena di chi dirige come si evince nello
struggente ed insieme tenero quadretto di malinconie familiari tra una
madre ed un figlio che Rosi riprende senza un un copione già scritto ma
con una luce contrastata che dona a quel momento un aggiunta di bellezza
estetica ed intensità emotiva. Chiamando a raccolta figure umane ed elementi del paesaggio, Rosi è bravo a trasformare l'unicità dei singoli frammenti in un unisono capace di definire una dimensione quotidiana aliena ed allo stesso modo vicina. Quello che non convince è invece il rapporto tra lo sviluppo urbanistico e stradale rappresentato dal Grande Raccordo Anulare e la sensazione di isolamento e straniamento delle vite che il film mette in gioco. Se è chiara l'allusione ad una prospettiva esistenziale che differisce a secondo della posizione che si occupa nello scacchiere della vita (la presenza di una metà individuata dall'insistenza del traffico stradale opposta alla mancanza di orizzonti di chi da quel movimento ne rimane sostanzialmente escluso) il sacro GRA del titolo non riesce a far sentire la sua indispensabilità rispetto al puzzle di umori che lambisce il suo perimetro. Senza la forza di quel vincolo le microstorie di Rosi sembrano perdere parte della loro urgenza ed in qualche passaggio finiscono per retrocedere ad anedotti poco originale, azzerando quel senso di scoperta a cui il materiale raccolto da Nicolò Bassetti e ripreso da Rosi invece aspira.
Italian Doc Filmografia essenziale: Il passaggio della linea (2007) di Pietro Marcello
Un'ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi La bocca del lupo (2009) di Pietro Marcello
La pivellina (2009) di Tizza Covi e Rainer Frimmel Il mundial dimenticato (2012) di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni Noi non siamo James Bond di Balsamo e Gabrielli Sangue (2013) di Pippo delbono
Pays Barbare (2013) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi


