Reggio Emilia possiede, credo, un grande dono: l’equilibrio tra tradizione, accoglienza e modernità.
Reggio può offrire molto di ciò che é il “nuovo”. É una città piccola ma europea, in tanti aspetti, che sa non tradire le sue tradizioni e le sue radici: montanare e contadine.
La si può vivere in tanti modi diversi, ma ovunque e comunque tu sentirai parlare di educazione, partecipazione, erbazzone, gnocco fritto, resdore e resistenza; collina, bassa e montagna.
Il reggiano tipico è uno yo-yo che ama vivere parte di se in citta’, producendo e lasciando un segno proficuo del suo essere magari anche ai posteri, ed è colui che svalica le mura della cittá per buttarsi in un prato, o mangiare in collina, o cercare il posto più rustico per mangiare i tortelli verdi.
Egli cerca con lo sguardo al contempo la bassa e la pietra di Bismantova e con orgoglio ricorda che Dante Alighieri la cito’; partecipa ai tornei amatoriali calcistici della montagna e con orgoglio ai miracoli di flora e fauna che ogni anno si rivelano.
Nella molteplicità di occasioni culturali che Reggio propone anche ricchi di questi spaccati, tra la tradizione e l’innovazione, questa sera (19/6/2014) si è inaugurata con le prove generali la terza edizione, presso i chiostri di San Pietro, dei tre giorni di “Saga_opera equestre”di Giovanni Lindo Ferretti: musica, storia, tradizioni ed epica.
Questo luogo è al termine del “salotto” cittadino via Emilia e vive di brevi ma significativi spaccati culturali, quali la appena conclusa “fotografia europea”. Oggi si apre a questa rappresentazione unica nel suo genere in cui uomini, musica, tradizione e territorio rinnovano un connubio ed una alleanza.
L’opera equestre ideata dall’istrionico Giovanni Lindo Ferretti, detentore e testimone della tradizione e della storia del dell’Appennino Tosco Emiliano, e dei suoi abitanti, dalla preistoria ai giorni nostri, racconta dell’antico sodalizio tra uomini, cavalli e monti attraverso la disciplina dell’arte equestre, scegliendo esclusivamente la luce naturale per illuminare lo spazio scenico. La compagnia di uomini e cavalli, entra in scena alle 19,30 con la luce del tramonto e termina al crepuscolo illuminata dai fuochi e giochi di falò.
Io mi affaccio il 20, giorno della prima, cioè in differita di alcune ore, rispetto all’impegno come blogger, inviata e invitata, dopo che Nicola , mio compagno di vita, ha partecipato alla serata di prova generale ieri sera. Ho dunque deciso che sarei entrata dentro a “saga” con un filtro. Per una serie di circostanze ho preferito che fosse lui il testimone di ieri sera: reggiano doc (e questa opera racconta, fra l’altro, il sodalizio tra questa terra, la natura e la gente), amante e cultore di musica, conoscitore del lato professionale, umano ed artistico di Giovanni Lindo Ferretti e dei CCCP. Ho ritenuto dunque che per lui fosse un’occasione da vivere questa esperienza con la lente di questi connotati specifici. Questo entrare in un secondo momento, mi permette di entrare in punta di piedi dentro ad un mondo fatto di storia, musica, sensibilità, tradizioni e modernità. Ieri ho vissuto da dove mi trovavo, attraverso gli spunti che Nicola mi mandava, i momenti di preparazione che anticipano la prova generale: i costumi, i cavalli, un primo assaggio di vita transumante, la trasformazione degli spazi, gli antichi strumenti che entrano in scena, alcune accortezze tecniche come la luce naturale unica consentita oltre ai falò che si accendono al tramonto, gli strumenti usati, le canzoni ed i testi, i profili di vita dei protagonisti equestri e non.
Mi giungono da lui in diretta foto e commenti che anticipano costumi, protagonisti e spaccati che hanno un sapore di una vita a tratti lontani ma che appartengono anche alle mie radici, di gente che crede in un ideale di partecipazione e di una tradizione forse perduta.
Questi pezzettini di puzzle compongono a me un mosaico da immaginare e twittare, a lui consentono di vivere dentro ad una relazione diretta con i protagonisti (cavalli, musicisti ed attori), documentando e narrando live in funzione del fatto che l’esperienza diventava di coppia e dunque occasione di nostro confronto, per poi farla proseguire nella scrittura, in una staffetta di competenze.
Conosco così, in questo filo virtuale che unisce due punti opposti del centro storico (i chiostri e casa mia) nomi quali Canusiae e Cangrante, Enea, Assenzio, Marcello, Cinzia, Andrea; protagonisti uomini ed animali di questa storia a cui inizio a identificare un ruolo, un fisico, un’identità, ed inizio ad entrare attraverso i whattapp di Nicola, con una naturalezza sorprendente, dentro alla storia di questo gruppo di persone e l’arcaico patto fra uomo e cavalli.
Amo gli animali, ho due gatte che sono la mia vita, conosco sotto questo aspetto il rapporto uomo-animale; non mi sono mai avvicinata ne interrogata sul mondo equestre. L’ho sempre percepito come qualcosa di lontano da me. Entrandoci dentro, sebbene velocemente, in questa occasione, mi sono trovata in una dimensione naturale, arcaica, tradizionale, immanente ed artistica che tocca la condizione umana in modo per me inaspettato.
Mi sono sentita accolta da questo gruppo di persone come fossi già di famiglia. In realtá per esserlo basta che mettersi in ascolto.
Raccontare queste poche ore trascorse con costoro non è semplice attraverso le parole. È stato come varcare una dimensione allo stesso tempo vicina e lontana: vicina perché più limitrofa alla natura delle persone di quella che la società ci fa credere e lontana perché km luce dall’individualismo che quest’ultimo ci suggerisce.
Quando si entra in questo gruppo si vive giá lo spettacolo che mettono in scena.
Queste persone non recitano, non ammaestrano, non fingono nel frangente dello spettacolo, ma vivono la loro esistenza in una continuità di vita, di essenza e di lavoro come testimonianza. La loro è una filosofia di esistenza in cui hanno liberamente deciso di immergersi rinnovando l’antico sodalizio uomo-cavallo che la società moderna ha allentato o falsato modellando l’amore per il quadrupede in una dimensione di gioco, di servilismo formale, di estetica, di razze esterofile.
Parlando con i protagonisti di questo teatro “barbarico” (suoni barbarci, vestiti barbarici,), senti la passione, l’utopia e la forza di un gruppo in cui ognuno collabora come sa e come può per la realizzazione di un obiettivo sociale, etico e culturale che parte da ciò che dovrebbe essere il tempo di vita naturale dell’uomo, e l’addestramento come educazione e relazione, la scoperta di sé e del mondo anche attraverso la vicinanza fisica tra uomini, cavalli e natura. Ascoltando i loro racconti cogli che lo spettacolo è giá di per se la loro vita o viceversa: il loro modo di accoglierti, rispettarti e narrarsi, trasuda una dimensione che richiama ritmi umani e l’unione consapevole e primitiva uomo-cavallo.
L’uomo secoli fa lo ha reso predatore e non più preda; il cavallo, in cambio, ha offerto all’uomo la sua forza, la sua velocitá rinunciando al branco. Egli è diventato cavaliere, il cavallo destriero. Solo così la civiltá umana ha potuto progredire; senza questo passaggio noi vivremmo un altro possibile mondo perfetto (forse).
Attraverso la messa in scena di “Saga” un gruppo di persone tenta essere testimone autentico, rinnovare il ricordo e l’immanenza di un patto per tutta l’umanità. Questo spettacolo ha la finalitá di aggiornare, in chiave moderna e attraverso le arti il rapporto stabilito nella tradizione tra uomo, natura e societá. L’uomo ha infatti la possibilitá, e Ferretti e tutta la compagnia lo dimostra, attraverso questo splendido quadrupede di ricongiunsi con ciò che è realmente umano, con l’intelligenza civile. Il presente diventa così meno angosciante, il futuro meno pressante ed il tempo assume un valore umanizzante, anche attraverso l’incrociarsi di sguardi di persone e animali che si scrutano e che si mettono in una comunicazione profonda e significativa. Le storie che ascolto da Cinzia, Marcello, Lindo, Andrea, sono racconti di vita profondamente autentici, di una umiltà che ti veste il cuore e ti sveste da tante paranoie.
Sono spaccati ricchi di umanitá, di queste gente che in un momento della sua vita o per un incontro, o per vocazione innata, o perché gli è scattato qualcosa dentro, ha cercato e trovato una spiritualità spesso laica, a volte materialmente elevata, panteistica, che li ha portati, senza forzature o rinunce estreme, a vivere, in autonomia comunitaria, l’ esistenza in un modo un po’ lontano dai nostri canoni, rinnovando un ricordo e rendendolo attuale; perché, come dice Giovanni Lindo, “non siamo chiamati a riproporre come modello la tradizione ma sapere quello che si era per salvarci”. Quello di questo gruppo di persone è un modello ed una testimonianza: viverlo anche solo come spettatore ti cambia il punto di vista, ti arricchisce di valori, ti mette nelle condizioni di creare metafore con la tua vita, le tue relazioni e quello che sei x te e per gli altri anche solo a specchio.
Vedere lo spettacolo dopo aver vissuto con loro una giornata è stato per me il coronamento dal punto di vista artistico ed umano di ciò che ho percepito dai dialoghi e dal vivere con loro solo alcune ore osservandoli. “Opera equestre” è un mondo di linguaggi che dialogano con l’animo del pubblico che è chiamato ad ascoltare le basi musicali di Ferretti, i suoni di strumenti arcaici come la ghironda o barbari come l’incudine, farsi cullare dal live di “amandoti”, vedere uomini e cavalli dialogare. Ho ammirato i maremmani tirati a lustro di cui mi avevano raccontato le biografie, seppur brevemente, e con chi ho provato ad entrato in dialogo nel tempo trascorso, mettendo a frutto i racconti di Cinzia e Marcello, con lo scambio di sguardi e tenere carezze.
Ho ascoltato la musica e li ho visti danzare dialogando con le note, non come siamo abituati tristemente abituati a vederli a mo’ di animali senza personalità, ma come veri e propri protagonisti in comunicazione scambievole con chi li accompagna nel recinto, e con te pubblico.
In quella ora e mezza si rinnova, e noi ne siamo testimoni, l’antico patto sopra citato: velocità e forza in cambio di riconoscibilità individuale ed uscita dal branco. Questo sodalizio ancora una volta ci salva e lo si percepisce anche solo dall’estetica e dalla pace che ti infonde lo spettacolo, e ci fa chiedere quale mondo sarebbe stato e cosa ne sarebbe di noi se l’uomo ed il cavallo non fossero entrati a patti.
Esperienze artistiche e di vita come questa hanno la virtù di riportarci in mente certi suggelli che abbiamo con la natura.
“Saga Opera equestre” è dunque in primis una esperienza umana che dialoga attraverso le arti con ciò che si è nel profondo, con gli archetipi, le proprie radici culturali, umane ed etiche e ci permette di rinnovare antichi salvifici, e per questo sempre attuali, sigilli.