L’8 settembre scorso lo avevo scritto. Mentre il mondo tirava un sospiro di sollievo per la sospensione della lapidazione, avevamo avvertito cheSakineh rischiava ugualmente di morire, impiccata, perché non era caduta l’accusa di omicidio.
Il procuratore generale dell’Iran, Gholam Hussein Mohsen Ejei, infatti, ha annunciato il 27 settembre scorso che la 43enne iraniana è stata condannata a morte per un altro reato: la complicità nell’assassinio del marito e per questo finirà sul patibolo, per l’appunto.
Lo riporta il Teheran Times, dove si legge, inoltre, che “la questione non deve essere politicizzata: il potere giudiziario non si può lasciare influenzare dalla campagna di propaganda avviata in Occidente”, ha dichiarato il Procuratore.
Adesso, per coerenza, il mondo “occidentale” dovrebbe scatenare un’altra reazione in favore della sopravvivenza di Sakineh. Ma potrebbe avere un effetto boomerang, ad esempio per gli Stati Uniti.
Ricordiamo, infatti, che il Paese di Obama è uno dei 76 in cui vige la pena capitale. Di recente, tra l’altro, ha fatto scalpore il caso di Teresa Lewis, la disabile mentale, a cui è stato somministrato un cocktail letale di barbiturici.
Considerato che gli Stati Uniti sono stati tra i primi che hanno sollevatoun urlo di protesta contro l’Iran in nome della vita di Sakineh, se dovessero fare altrettanto in questo caso, come si porrebbero con ciò che avviene sul loro suolo?