Verso la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo, a Nardò, le produzioni di ceramica dovevano essere in piena decadenza.
Domenico Leonardo Perrone, nato a Nardò il 18 luglio 1714, le risollevò dal declino. Secondo di sei fratelli, era figlio di Giovanni Battista Perrone e di Rosa Rutigliano da San Pietro "degli imbrici" (in Lama) i quali, come tanti, giunsero nella Città in seguito al vasto fenomeno migratorio che vide, nel Seicento, numerosi braccianti riversarsi nei centri più importanti della penisola salentina. Nardò fu il luogo dove sicuramente Giovanni Battista trascorse gli anni della formazione e, probabilmente, qui apprese anche la pratica dell'arte ceramica sotto la guida del padre che era un prestatore d'opera nelle botteghe dei maestri Francesco Bonsegna, prima, del figlio Tommaso, poi.
I primi documenti nei quali è attore Domenico è un atto notarile del 1728 nel quale, ad appena quattordici anni, strinse un accordo con Ottavio Marangella e Rosa Turricchio, coppia benestante di Nardò, per la cospicua dote della loro unica figlia, allora dodicenne, Cristina. Il documento oltre a fornire una testimonianza storica del vissuto del protagonista, svela quel carattere libero e forte che lo accompagnerà per tutta la vita e ne caratterizzerà la sua attività. La prima nota sull'opera manifatturiera di Domenico Perrone si ottiene da un atto notarile del 1738 quando egli acquistò, pagandola in contanti prima della scadenza contrattuale, una " Bottega di far Codimi di creta [...] sita in loco, Li Piattari" dal galatinese Lupo Antonio Turchi che, a sua volta, l'aveva ricevuta in dono dal magnifico architetto leccese Mauro Manieri, discendente diretto di una delle antiche famiglie di ceramisti neretini. La documentazione d'archivio evidenzia l'ostinazione con cui egli proseguì la sua opera.
Dal 1738, data del contratto d'acquisto, al 1755 Domenico Perrone affittò, acquistò, modificò, riedificò botteghe ponendo una sorta di monopolio manifatturiero su tutta l'area neretina detta " Li Piattari" rimanendo, al contempo, unico e incontrastato faenzaro. Nel 1741, anno della morte del padre Giovanni Battista, iniziarono si verificarono i primi guai finanziari. In quell'anno, precisamente nel mese di agosto, Domenico e il fratello maggiore Donato (questi in seguito si trasferirà a Brindisi) furono condannati dal "mastro di mercato" a rifondere Giovanni Lisi, mercatore neretino, la somma di cento ducati corrispondenti al valore del debito contratto per l'acquisto " di certi colori per l'arte loro". Una somma esorbitante se consideriamo che una bottega si poteva acquistare per circa nove ducati. A rendere ancora più vacillante la situazione patrimoniale di Domenico Perrone contribuì il devastante sisma del 1743 che colpì la penisola Salentina, in particolar modo Nardò. I documenti non forniscono notizie sull'entità dei danni che, certamente, subirono le sue proprietà ma, con buona probabilità, anche Domenico dimorò, con tutta la sua famiglia, almeno un anno nell'albergo della città. Il Catasto Onciario del 1750, inoltre, fa rilevare che egli, a proprie spese, sosteneva la madre vedova e il fratello, fino ad allora "zitello" e "nullatenente", il quale lavorava, su imposizione di Domenico stesso, nella sua bottega.
La sua figura, significativamente imprenditoriale e accentratrice, fu quella del padrone "unico" detentore di tutte le sue botteghe, ordigni e delle "capitanie" gravanti sulle stesse. Tutti i suoi figli maschi saranno, dallo stesso, fatti associare tra loro come rivelano le dichiarazioni notarili fatte rogare, tra il 1754 e il 1769, dallo stesso Domenico. In esse egli si obbligava di "mantenere nella di lui Bottega di faenzaro in questa Città di Nardò vita sua durante" i suddetti figli in cambio di una salda unità della società familiare. In tal modo divideva tra di loro la proprietà delle varie botteghe mantenendo per sé la " capitania" delle stesse anche se l'accordo prevedeva la possibilità, offerta ai figli, di sciogliere questa servitù. Il figlio maggiore Michele, difatti, rinunciò a detta società affrancandosi dal consorzio paterno nel 1763, ovvero dopo la morte del fratello Ottavio, pur continuando a lavorare all'interno della stessa bottega paterna sino alla morte avvenuta nel Febbraio 1764. Alla vedova di Ottavio e al figlio, suo nipote, Domenico negherà persino la restituzione della dote malgrado lei si fosse già risposata. Nel 1777, con un lascito irreversibile, egli aveva affrancato anche il figlio Vincenzo affidandogli una " Casa a lamia col soprano a tetto, e cisterna dentro, sita in questo abitato di Nardò, luogo detto li Piattari" e la " metà di una bottega di faenza con fornace una colla metà dei suoi strumenti" che era di proprietà della prebenda dell'arcidiaconato. Nonostante l'affrancamento Domenico mantenne il diritto di revocare, a motivo di qualsiasi urgenza, la donazione fatta. In forza dello stesso diritto, ne esercitò la rivalsa nel 1780 non riuscendo a pagare diversi debiti contratti con Benedetto Prato, mercatore di Gallipoli, e altri mercanti della stessa città a fronte di " alcuni casi [acquisti] di roba" per la sua " bottega di faenze ".
Poco dopo, in accordo con i figli Vincenzo e Giuseppe, Domenico vendette la casa al secondo obbligandolo, però, a corrispondergli una diaria giornaliera della durata di un anno nel caso in cui fosse sopraggiunta un'infermità dovuta all'avanzata età. Il figlio Vincenzo, in seguito a questo contratto di vendita, " fugge " nella città di Brindisi per non tornare più. Il 4 novembre 1782, all'età di 68 anni, Domenico Perrone morirà destinando alla sua discendenza ogni eredità, patrimoniale e non.
Per approfondimenti:- Salvatore - R. Viganò, Primi dati sulla ceramica di Nardò, in "Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano", n. 11 (2008).
- Viganò, Per uso della sua professione di lavorar faenze. Storia delle fornaci e delle manifatture ceramiche a Nardò tra la seconda metà del XVI e gli inizi del XIX secolo, Ed. Esperidi, Lecce 2013.