La sera del 9 maggio, Ernesto Ferrero, direttore editoriale del Salone del Libro, ha acceso i riflettori sull’inizio dell’unica manifestazione in grado di portare, da venticinque anni a questa parte, il mare a Torino. Sì, perché, come ha poeticamente sottolineato, certe onde provenienti da tutto il mondo lambiscono, in questo periodo dell’anno, i margini del Lingotto, facendo affluire una moltitudine di libri che sembra quasi seguire un richiamo segreto e remoto. Immagine bellissima, la cui pacata serenità cozza inevitabilmente con quella confusione irrazionale che fa rimbombare per dodici ore al giorno le pareti di un edificio raramente immerso nella tranquillità. È spaventoso – ma, per questo, stupendo – vedere come i libri, emblemi della razionalità e del pensiero organizzato, possano dare vita a un orgiastico groviglio di voci, passi, gesti, tutti rivolti in direzioni diverse, senza una logica, nonostante la mappa venga spesso in soccorso. Ma c’è mai stata una logica nel sentimento dell’amore? Un amore curioso, sempre pulsante per la brama di nutrirsi di rinnovata linfa vitale, sempre alla ricerca di nuovi stimoli per evitare di cadere in una noia senza fondo… L’amore per i libri è questo, e anche di più.
Come si può imporre l’ordine, quando la passione agita in noi impulsi incontrollabili? Mi sono posta questa domanda riflettendo sulle nuove tecnologie che stanno invadendo quel mondo aureo e cartaceo che la cultura è sempre stata. Il tema di questo 25° Salone del Libro è stato proprio il digitale: o meglio, la “primavera digitale”, nome scelto forse per indicare un risveglio, questa volta definitivo, dopo secoli e secoli di letargo tradizionalista. Tablet, iPad, smartphone sono i nuovi nomi da imparare a memoria per evitare di essere tagliati fuori da un mondo in corsa che non ammette ritardi e non sta ad aspettare nessuno. E se io, ventenne, mi faccio prendere dalla nostalgia al solo pensiero di un futuro, più o meno prossimo, in cui ci sarà negato il piacere di sfogliare un libro, non oso immaginare le inquietudini della “vecchia scuola” di lettori, quelli che hanno visto passare sotto i loro occhi le invenzioni più disparate, ma che mai e poi mai avrebbero pensato a un metodo rivoluzionario per fruire la scrittura.
Finora, siamo stati tutti accomunati dall’esperienza di superfici tangibili nella loro ruvidezza decisa o rassicurante levigatezza: pagine accarezzate, impugnate, maltrattate, ma, comunque, sentite. Come fa, il polpastrello, a non rattristarsi venendo a contatto con la superficie fredda e monotona di uno schermo? Ecco il salto generazionale, ecco la voragine che si sta aprendo. Non voglio raccontare ai miei figli – va bene, cerco di essere più, ottimista: ai miei nipoti – quanto fosse bello odorare le pagine fresche di stampa di un libro ancora mai toccato. No. Ho visto moltissimi ragazzini estasiati di fronte agli stand che mettevano in bella vista questa sfrontata tecnologia: la ricerca del divertimento nella comodità estrema.
Ma chi ha il diritto di criticarli? Il fascino del movimento, del colore, insomma, della vitalità nella sua più concreta essenza, rapisce. Ma, in fondo, cosa c’è di innovativo in tutto questo? Anche i futuristi vollero scardinare un’antica tradizione con tutta la violenza di un progresso invadente e distruttivo. Ebbero seguito? A scoppio ritardato, ma la bomba ebbe comunque un certo effetto. Questa volta, però, non c’è nessun manifesto programmatico a sostenere certe idee: si avverte, nell’aria, la necessità di facilitare un’attività come il leggere che non dovrebbe neanche concepire in sé l’idea di fatica. Ma questi sono solo discorsi.
Fortunatamente, qualcuno ha pensato bene, nel concreto, di mantenere viva un po’ di sana tradizione, attraverso il ricordo degli anni passati per omaggiare questo importante anniversario del Salone del Libro. La mostra “La città visibile” ha voluto dare voce a venticinque oggetti-simbolo di Torino grazie ai commenti di scrittori e personalità di spicco della città: Fabio Geda descrive le Superga come scarpe che «raccontano la storia di un’Italia che, soprattutto vista con gli occhi dei ragazzi, ha lottato con vigore, anche sporcandosi, anche facendosi del male, per costruire la propria identità», Bruno Gambarotta elogia Guido Gobino per aver fatto transitare il cioccolato dal passato al futuro, Andrea Bajani si emoziona nel ricordare Torino come la città più imbandierata d’Italia in occasione dei centocinquant’anni dell’Unità, Alessandro Barbero ridona freschezza alla Venaria Reale, che sta vedendo le sue sale riempirsi di turisti laddove un tempo stanziavano quelli che Vittorio Alfieri chiamava “i tiranni”.
E c’è un poetico sapore di tempi lontani anche nelle parole di Alessandro Baricco, che, nella conferenza tenuta domenica 13 maggio, ha espresso le sue considerazioni sull’evoluzione del mondo del libro in questi venticinque anni. Ha ricordato quell’epoca in cui gli scrittori presenti al Salone stavano fermi e comodi nelle loro poltroncine e non parlavano – mentre, adesso, parlano fin troppo: la componente narcisistica nel mestiere dello scrittore ha trovato, così, il modo di sfogarsi nel contatto con il pubblico, fonte di una soddisfazione fisica senza paragoni. Scongiura con un sospiro di sollievo il rischio, più volte annunciato quando era un giovane studente di Filosofia, di una civiltà dell’immagine che avrebbe soppiantato quella della scrittura: noi, al contrario, continuiamo a scrivere tantissimo, non sempre in modo corretto, ma la cosa importante è che, scegliendo di scrivere, istituiamo un rapporto fra quello che mettiamo nero su bianco e il tempo necessario per pensarlo: anche un SMS può contenere il suo grado di elaborazione e «le profezie che cadono nel vuoto ci educano a costruire il futuro».
Inoltre, come negare l’aumento della circolazione di soldi, dato da un sempre maggior numero di persone che accedono al mondo della lettura? E, ormai, si trovano libri di qualsiasi genere e provenienza: il libro è diventato una stazione intermedia fra sequenze che vengono da diverse parti. Da esperienza sofisticata, è scesa nella quotidianità: come usare le Adidas per fare una cosa completamente diversa dallo sport. Che cosa può salvare, in definitiva, la scrittura? Non tanto le istituzioni, nemmeno un evento così ben organizzato come il Salone del Libro: ma un’esperienza straordinaria, portata nel cuore e poi scritta, non usando la lingua come strumento, ma creandola, facendo accadere in essa un suono, uno sguardo, una voce, per articolarla in tutta la sua potenza. Una magnifica lezione d’amore, da portare nel cuore: affinché l’amore stesso, la scrittura, e, quindi, il libro, non muoiano mai.
Le fotografie inserite nell’articolo sono di Manuela Marascio
XXV Salone Internazionale del Libro
Torino Lingotto Fiere 10-14 maggio 2012