Fra le presentazioni cui ho assistito domenica 19 maggio al Salone del libro di Torino (che per me è stata la giornata conclusiva) si può rinvenire un trait d’union: le presentazioni di libri sono diventate dei veri e propri spettacoli, commiste di musica e di teatro, anche ad alti livelli. A ciò si aggiunga che il tema centrale di quest’ultima edizione del Salone, appena trascorsa, era proprio la “creatività”.
È molto bello che la creatività sia “unica” e che non ci siano compartimenti stagni, poiché anche la scrittura è una forma di Arte a tutti gli effetti ed è giusto che si fonda con altre forme creative. Per parte mia è anche giusto che l’artista vero si formi su tutto, e non si soffermi su una tecnica specifica, ma è giusto che il punto focale sia la trasmissione di “emozioni”. Questo concetto l’ho anche ribadito in altre sedi, non per essere ripetitiva ma perché ne sono convinta dal profondo.
Domenica scorsa, ho assistito alla presentazione dell’Ulisse di Joyce nella traduzione di Gianni Celati, realizzata dal 2006 ad oggi per Einaudi editore.
Occorre evidenziare come sia proprio un pallino della Einaudi far realizzare traduzioni proprio da scrittori, tanto che, nel 1983 Giulio Einaudi aveva voluto, ideato e curato personalmente proprio una collana denominata “Scrittori tradotti da scrittori”.
Perché si è resa necessaria una nuova traduzione? Semplicemente perché la lingua evolve e diventa vecchia e, nel caso dell’Ulisse (la cui ultima traduzione risaliva agli anni ‘50) il divario diviene ancora più grande, perché Joyce ha dato una forma parlata ai pensieri e i pensieri scorrono in maniera diversa da una mente a un’altra ma sicuramente scorrono in maniera molto ma molto più veloce della lingua scritta. Nell’incontro di domenica Gianni Celati ha voluto mettere in evidenza proprio la “musicalità “ dell’Ulisse e come appartenga a quelle letture che rendono bene solo se recitate.
Ed effettivamente è stato così, la cosa che più mi ha colpita non è tanto il dibattito su ciò che per dovere di cronaca vi ho riportato sopra. A livello emotivo -per riallacciarsi al discorso sulla letteratura come forma di arte, capace di trasmettere emozioni- ho gradito molto di più il monologo di Molly Bloom magistralmente recitato (una parte adattata ovviamente) dall’attrice – e regista – Chiara Caselli.
Oltre che perfetta tecnicamente per la dizione, e per la memoria (non ha letto nulla, ha proprio recitato), ha incantato l’uditorio, per il sentimento, per la mimica, sia facciale sia del corpo. Sembrava veramente di trovarsi nel letto di Molly Bloom in compagnia dei suoi pensieri. E ognuno di noi poteva fare il confronto con i propri flussi di coscienza, con i propri desideri inespressi e reconditi.
La seconda presentazione cui ho assistito è stata quella de “Il corpo umano” opera seconda del giovanissimo e talentuoso scrittore Paolo Giordano, già vincitore del premio Strega con il suo romanzo d’esordio, “La Solitudine dei numeri primi”.
Personalmente “il corpo umano” non mi è piaciuto molto, l’ho trovato davvero difficile da leggere, a tratti, mentre “la Solitudine dei numeri primi” l’ho letteralmente divorato, ed ho apprezzato la grande introspezione psicologica dei personaggi.
Tuttavia questa presentazione mi è piaciuta molto, sia per l’aspetto artistico (accompagnamento con musicisti bravissimi, letture di un attore davvero emozionanti, proiezioni di video e film, luci soffuse) sia per il taglio che Giordano stesso ha voluto dare.
La cosa che mi ha lasciata meravigliata positivamente è come, nonostante la vincita del premio Strega in giovane età e con il suo primo romanzo, sia molto umile, anzi schivo, timido, quasi timoroso, emozionato ed emotivo. Il linguaggio del corpo parla chiaro, ho potuto vederlo da vicino e tutto ciò depone a suo favore come persona, oltre che come scrittore.
Inoltre ci ha detto che questa presentazione (come le altre che ha fatto nel resto d’Italia) vuole essere non una semplice presentazione ma la celebrazione di un percorso.
Essendo “Il corpo umano” un romanzo di guerra, ci ha illustrato i punti comuni dei romanzi di guerra, contenenti sempre un “prima” un durante” (la guerra appunto) e un “dopo” e ci ha parlato (e letto alcuni passi) del libro “un terribile amore per la guerra” di James Hillman. L’idea sottesa, e condivisibile, è che la guerra sia un evento da affrontare, non possiamo relegarla nel dimenticatoio fintantoché non ci riguardi personalmente. È vero che è osceno parlare della guerra, ma tanto più osceno è dimenticarsene fintantoché non ci riguardi personalmente.
L’idea di Miller è che la guerra vada affrontata artisticamente (solo in questo senso si può parlare di amore) non soltanto, come è nella mentalità comune, giornalisticamente. Giordano parla più precisamente di “mentalità da tg”. In altre parole credo intendesse dire che le immagini ci scorrono davanti e non ce ne accorgiamo nemmeno. Solo affrontandola artisticamente si può vedere con meno distacco, e questo vale soprattutto per le guerre moderne, più silenziose, senza battaglie ma sotto la continua minaccia di ordigni. L’idea di Miller è proprio quella che Giordano ha cercato di perseguire con la scrittura di un romanzo di fantasia, per non dimenticare.
Written and Photo by Miriam Caputo