Respira di bocca, chino il felino.
Mi piace pensare che ci siano delle grandi categorie dove si può dividere il tutto.
I baobab e le mangrovie.
Ci corriamo dietro di continuo, chi ha lo zaino in spalla e chi riesce a stare dall’altra parte del vetro ad aspettare. In quel momento, quello prima del decollo, ogni singolo riflesso diviene importante. Nell’attesa del vedere nell’altro un arcobaleno - piccole mani in questo caso si chiudono e aspettano che il padre sempre tenere all’apparenza nel tempo volubili, viaggiano veloci i gabbiani che sbranano i piccioni a bordo strada di Liverpool.
La delicatezza del tempo trafigge la venti quark.
Aspettare momenti di incontro in tenui e difficili pause.
Zigomo avanti e indietro.
Striscia per striscia il sole si dipana fra le sbarre della tigre nervosa allo zoo, dicono che la sua bellezza sia decorativa.
Lei muove la coda avanti e indietro e del verde non ricorda che un riflesso di stagno.
Viviamo di lavori romantici uccisi dalla modernità.
Le mangrovie hanno i segreti più profondi dentro ma le radici sono per aria.
Cerchiamo nuovi ritratti di noi stessi.
Noi nei giorni ancora altro ancora o forse semplici con le stesse tracce.
La tigre mangia il pasto appena servito: bocconi di capra appena sgozzata.
I bambini guardano felici oltre quelle sbarre, non gli sembra vero che questa tigre sia solo per loro.
Mio padre,tuo padre ci guardano: diverse le loro valige dalle nostre.
Settanta cavi diversi e non sapere cosa farsene,in fondo cerchiamo di arredare le case in oggetti di design e siamo noi che tracciamo le nostre traiettorie.
I più grandi di noi sono quelli che hanno paura di se stessi.
come peso negli altri, piccole strisce e piume dei gabbiani.
gira ancora.
io te.
un cammello.
un fenicottero.
c’è una casa in lontananza è la nostra solo per oggi corriamo via veloci rotoliamo nell’erba.
veloci come un bacio.
Il deserto in testa pian piano si manifesta è come vedere un oceano senza conoscerne il nome.
io, tu, ora e la tigre seduta paziente dietro le sbarre.
Il baobab è un seme solo: piani piano cresce e si chiede come è fatto all’interno un formicaio.
Da un lato quest’albero è secco saldo lancette nel tempo non contano.
poco movimento, musica lenta.
Quel riflesso lo tieni ancora nelle mani dopo vent’anni è il riflesso dell’uomo che è partito.
E i fenicotteri dei ricchi planano ancora.
Le nostre valige sono zaini si posano e poi si riprendono.
l’occhio della tigre è placido ancora. vivido e vitreo.
Le mie parole ancora una volta contro il muro bianco, pensa al tempo che traspare oggi sul mio viso nel tempo nelle carte non giocate briciole eppure sono già morto. Fegato gonfio ancora come le papere che non sanno dove tornare a casa in primavera incaute cacciatrici di becchi . Sanno ancora dove sono le alghe .
Le mangrovie gettano le radici nel mare, alte si insolano cercando il cuore d’oro di ogni foglia.
è il suolo che è pervaso di soluzioni.Bisogna germinare.
Irene Dorigotti