Salvatore Pagliuca: Alcune considerazioni

Da Narcyso

ALCUNE CONSIDERAZIONI PARTENDO DAL LIBRO DI
Salvatore Pagliuca, LENGH’ R’ TERR, Le voci della luna 2012

IN FORMA DI QUESTIONE
Se c’ è uno scopo, una vocazione per spazi come il mio e quello di pochissimi altri, é dimostrare l’ incredibile varietá di voci, di poetiche, di registri che accadono in poesia: qualitá innegabili, ma anche resistenze, indifferenze, lotte fratricide, monconi di bellezza, rigore, superficialitá, vocazione di silenzi, periferie, cittá, prigionie, palcoscenici. Per ognuna di queste voci si potrebbe riscrivere la storia della poesia italiana e dimostrare che, non sempre ció che avviene al centro del palcoscenico, l’applauso delirante per il monologo del grande attore, sia l’avvenimento principale.
E mi piace ricordare, a volte, per sottolineare questo pensiero, il rifiuto di Farinelli a cantare “verdi prati”, un’aria semplicissima dell’Alcina, un insulto per le doti canore superlative del famoso castrato. Ma Handel lo convince, e tutte le volte che Farinelli canta “verdi prati”, la platea non respira per l’emozione.
Cosa voleva dire Handel, cosa voglio dire io con ció?: che l’abbassamento del narcisismo, il togliersi la maschera della fama, reale, presunta o immaginata, per far apparire un’altra forma – piú vera, piú autentica – é condizione essenziale per quella poesia che, come dice Choen introducendo questo libro, non rinuncia a ritrovare “la bellezza irta e ferita dell’umanitá e della vita”.
Ché, a me pare, questo bisogna fare oggi, scrivendo di poesia, da poeti e da critici: mischiarsi, immischiarsi, fare in modo che la parola s’impregni il piú possibile prima della solitudine, prima di scrivere nella distanza necessaria con le cose.
E, a proposito del dialetto: mi sembra di poter dire che, piú che l’eco dei maestri, delle scuole e delle correnti, esso conservi e mantenga viva la vicinanza con le materie dell’esistenza, con un certo mal di vivere dell’esistenza; perché le mani sono sempre indaffarate e il pensiero riguarda un modo in cui bisogna risolvere un problema, avvicinarsi alla practica del discernere, del saper mettere le cose al posto giusto, del non avvicinare troppo le cose che non ci assomigliano ma di collocarle giustamente nella loro piú naturale ontologia. Se questo non avviene si ha l’intervento del riso e dello scherno, della fantasia degli spiriti, di una certa malinconia creatrice capace di riportare la lingua al suo lato piú oscuro e mortifero, raggiunto il quale essa potrebbe finalmente tacere.
In questa concretezza del dialetto – e bisognerebbe avere il coraggio di considerare certe opere scritte in italiano, come opere di traduzione da una lingua madre stracciando l’originale di una lingua subito censurata o fatta emergere attraverso una ritraduzione, come avviene, per esempio, in FUORI I SECONDI di Corrado Bagnoli, restituita alla sua naturalitá dalla traduzione in brianzolo di Piero Marelli, o come sperimentalmente fa Salvatore Pagliuca in ORTO BOTANICO (1997) testo qui antologizzato, dove troviamo dei trittici: testo in dialetto, sua traduzione in italiano, altro testo scritto in italiano, nella funzione di una schermaglia/verifica, o confronto affronto tra la trad(u)izione e la sua resa nella retorica, nel flusso dell’italiano.
Ecco: forse bisognerebbe riflettere quale amaro e capiente calice di proiezioni sia diventato l’italiano della poesia, organismo sbattuto violentemente nella diatriba tra la storia della poesia a partire da Baudelaire e le esigenze di un rinnovamento che stenta a mostrarsi, invischiata com’é la poesia nelle diatribe di un io martirizzato e incensato forse per sentimento di colpa. A volte questo rinnovamento, insomma, prende timidamente la forma di definizione, di metapoesia, di tentativi di allunaggio. Di distanza, dunque.
Fra le altre cose, questo fa il dialetto: la riappropriazione di una innocenza o quantomeno di uno spaesamento linguistico; il dialetto, insomma, sghignazza di se stesso se si accorge di fingere, di mettersi addosso un’altra maschera della modernitá. Si veda, dunque, STUPIDO CUORE SPAVENTATO: che cosa sia l’amore, che cosa sia rimasto Amore: “in assoluto uno dei canzonieri d’amore piú belli degli ultimi decenni” (Cohen) e in un testo bellissimo che qui riporto:

Pulizz’ senza press’
nu vecchj’ cimitèrj’. Robb’
r’ muort’. Na fatihja speciàl’
ca arròbb’ cu paciènz’
ra nu riscìgghj spers’
mpiett’ a nu custòn’.

P’ chiur’ la settimàn’ngarràj
nu fuoss’ semmenzàt’ r’ figliòl’
- ammuccuàt’ ra nu lat’ -
cu nu fricchj r’ cauràl’
e cu sopr’ doj’ pignàt:
una menzàn’ e una cchiù piccinènn’.
P’ sentimiènt sol’ lu merch’
r’ na vest’ ncìm’ a na spingol’
assaj graziòs’ e bellafàtt’,
accunzàt’ mbizz’ cu na ros’.

Rummènich’ so’ giùt a lu pagliàr’,
p’ t’ penzà sott’ a n’aulìv.
Ma aucchiann’ temp’ p’ temp’
nunnàgg’ ngappàt’ manch’
nu merch’, nu singh’, manch’
nu frinzil’ r’ nuj nnamòr.
E pur’ quann’ è ch’ è stat’
ca m’ vuttàvv’ nterr’?
E ammulutàmm’ – sciunùcchj e rin’
sop’ a rr’ gregn’ – p’ finì mpastàt’
r’ zanch’ e paglj intr’ a nu fuoss’?
Quann’ è ch’ è stat’ ca
c’ riciemm’ cu l’uocchj
‘scuocchj quà nzitt’ a la mort”?
Si e no cient’ ann’ fa.

***

Pulisco con attenzione
un’antica necropoli. Cose
di morti. Un particolare lavoro
che ruba pazientemente
da un arido terreno disperso
su un costone.

Per concludere la settimana beccai
una fossa mezza distrutta di ragazza
- deposta su un fianco -
con un frammento di bacile
e sopra due vasi:
uno medio e l’altro piccolo.
Come ornamento solo l’impronta
di una veste sopra una spilla
molto graziosa e ben fatta
adornata all’estremità da una rosetta.

Domenica sono andato in campagna
per pensarti sotto un ulivo.
Ma osservando zolla per zolla (tutto il terreno)
non ho trovato nemmeno
un’impronta, una traccia, nemmeno
un brandello di noi in amore.
Eppure quanto tempo è passato
da quando mi spingesti a terra?
E rotolammo – ginocchia e reni
sopra i covoni – per finire impastati
di argilla e paglia dentro un fossato?
Quando è successo che
ci dicemmo con gli occhi
‘giuralo fino alla morte’?
Neanche cento anni fa.

p 74.

Lingua nella distanza, non dimentica di chi siamo, di ció che siamo ora, mille anni fa, fra mille anni; che “io” non é “altro”, ma un dispositivo naturale di distinzione tra il mondo che dorme senza nome e il mondo che si pensa, rinunciando al quale – per esempio cancellando il soggetto e i suoi attributi – noi ritorniamo nell’incorporeo materno attraverso la maschera, il mentore piú potente di un pensiero non piú in grado di distinguere ma di assecondare l’innominabile.

Sebastiano Aglieco

UN’ALTRA MIA RECENSIONE QUI

TESTI


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