Sono rimasta colpita per il gran numero di mail ricevute dopo aver postato la mia storia di alcolista. Di norma preferisco che siano i miei personaggi a raccontare i propri orrori interiori, ma so anche che un racconto – testimonianza fa un altro effetto: allora è vero, allora se ne può uscire!, è stata la risposta di molti. È di oggi la notizia di una tredicenne finita in coma etilico e in pericolo di vita: non posso fingere che il problema non mi riguardi più.
Non sono un medico e non sono mai stata a una riunione degli Alcolisti Anonimi, ma so che ho cercato di smettere da subito, fin da quando ancora ragazzina rubavo il vino dalla damigiana che poi annacquavo perché mia madre non si accorgesse del mio problema. Sono sempre stata brava a dissimulare la sbronza, la vita itinerante da attrice mi ha poi consentito di unirmi a compagnie che bevevano quanto e più di me e di dimenticare il problema. Quando ho capito di aver toccato il fondo avevo una sola via d’uscita: smettere. Mi sono detta che se non ce l’avessi fatta quella sera ci avrei riprovato il giorno dopo e ancora l’altro, e così è stato finché ho smesso. Bisogna ammettere di essere alcolisti per primi a se stessi, e senza vergogna, poi alla famiglia e agli amici. L’alcolismo non è un vizio, è una malattia. In tanti mi hanno domandato se un giorno sarà possibile bere qualcosa, così per festeggiare l’ultimo dell’anno o che so, un’importante ricorrenza. Io, come tanti esperti, credo proprio di no, siamo nati alcolisti non bevitori occasionali. Bere, ci piace da morire. Anche adesso, e dopo otto anni, se vedo una birra gelata, mi prende una gran voglia di buttarla giù di un fiato: eppure resisto anche nei Pub londinesi. No, non si può bere occasionalmente, credo anzi che sia fondamentale continuare a dichiararsi alcolisti e farlo pubblicamente. Non ci si deve vergognare di una debolezza e si possono aiutare gli altri testimoniando la propria vittoria sulla dipendenza; anche il vecchio zio che da lì, dal fondo tavolata pasquale, ci ha guardato con invidia rifiutare più di un maledetto bicchiere.
Si chiama “circolo vizioso” il cerchio che il fondo del bicchiere disegna sul bancone del bar e che, normalmente, noi alcolisti ci ritroviamo a guardare moltiplicarsi, per quel vezzo di poggiarlo e riportarlo alla bocca di continuo e per la voglia che ci prende, dopo il secondo bicchiere, di ordinarne un terzo, un quarto e così via. Mi hanno insegnato che l’alcolismo è un fondo da non toccare, ma soltanto adesso che sono sobria so quanto sia intollerabile vedere qualcuno che barcolla e straparla, e riconosco, in tutta quella confusione, l’inutile tentativo di superare una sofferenza attuale o un antico dolore. Io sono arrivata a quella confusione e anche oltre. Come chiunque beva ho fatto e detto cose di cui, ancora oggi e dopo anni, mi vergogno. Perché il “circolo vizioso” non è che senso di colpa. Chi non beve non conosce la vergogna che si prova al ricordo di certe nottate. Parenti che accorrono alla festa dove l’alcolista balla nuda sui tavoli, mariti che si consolano nell’altra stanza con una qualunque mentre la signora è impegnata a svuotare bicchieri altrui lasciati qua e là sul mobilio di casa, figli che preferiscono fare un giro on line pur di non sentire la solita barzelletta biascicata per la centesima volta. Si chiama vergogna quella che il giorno dopo, spinge l’alcolista a entrare di nuovo nel bar.
Perché da effetto il bere diventa l’unica causa dei nostri problemi. Beviamo per sanare insicurezze, tamponare dolori, rimarginare ferite poi, però, dimentichiamo il perché abbiamo iniziato, e quando per caso ci guardiamo in una vetrina senza riconoscere il nostro corpo ormai trasfigurato, l’alcol occupa già tutta la nostra esistenza. Ci sono i bevitori del fine settimana, che contano i giorni e lasciano che il tempo passi il più rapidamente possibile affinché arrivi il venerdì assieme a una scusa plausibile. Ci sono gli alcolisti serali, che fanno lo stesso con la propria giornata dimenticando tutto, tralasciando gran parte dei propri doveri, distratti dall’ansia di arrivare all’aperitivo e dissetarsi con roba forte. Ci sono le casalinghe, che bevono già dal mattino, ben protette dalle mura domestiche e in fuga dalla frustrazione che le insegue dal giorno delle nozze. Quando si sta nel mezzo del circolo vizioso non si riesce più a vedere la bellezza che c’è al di là di esso. Guardando il mondo girare attorno alla disistima di sé non si può vedere oltre il muro di vergogna che da soli abbiamo innalzato: per i capelli tagliati a zero una sera di qualche giorno fa, per lo schiaffo dato in un moto di gelosia del tutto irrazionale, per quella strada a senso unico presa alla massima velocità e per il verso sbagliato.
Tutta l’esistenza viene organizzata in funzione della bottiglia. Si decide di andare a cena da amici se sono generosi nelle mescite e se no, ci si porta dietro una buona dose con la scusa dell’occasione speciale. Anche le amicizie sono asservite al dio Bumba. Bere in compagnia è meglio, restare sino alle sei del mattino a raccontarsi cazzate e solo per quel goccio in più è più piacevole che restarsene ipnotizzati davanti a Ghezzi e film in giapponese e senza sottotitoli. A un certo punto si diventa dei veri esperti in “cose mai viste”. Perfino lo specchio diventa clemente: anche lui si ubriaca delle nostre scuse banali, delle giustificazioni e dei buoni propositi, anche lui vede nel gonfiore un che di positivo.
Anche la famiglia non vede, e se vede partecipa di buon grado alla recita: è Natale, la ragazza l’ha lasciato, il lavoro non si trova. Ci sono troppe buone scuse per non vedere il dramma. Ci sono mille motivi per rimuovere. Il nostro tempo è scandito dai sorsi, la pendola dell’alcolista si muove assieme all’ossessione di bere, e una volta col bicchiere in mano, si ferma. Perché lì al bancone del bar diventiamo tutti giganti. Improvvisamente tutto è chiaro e lampante, la nostra debolezza e il lerciume sono da addebitare solo all’altro: a quella stronza che ci ha lasciato, al Natale di merda, ai raccomandati che ci rubano il posto di lavoro. Tutto si aggiusta quando si sta seduti in vineria con il gomito appoggiato al bancone, ma il giorno dopo la vita tornerà a metterci davanti allo specchio e ci domanderà di mostrargli la lingua. Quando lo feci io, quel mattino di otto anni fa, mi dissi che se non avessi smesso sarei morta prestissimo. Di alcol si muore e di alcol si uccide.
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