SAMSARA di Pan Nalin – 2001
Una pecora muore all’inizio del film, uccisa da una pietra lasciata cadere da un’aquila; è come un presagio per tutta la narrazione, come un senso di impotenza di fronte agli eventi della vita.
Mentre ci chiediamo il perché di questa morte, inizia la storia del monaco Tashi, dopo 3 anni, 3 mesi, 3 settimane e 3 giorni lontano dalla società, torna al mondo.
Tormentato da incubi, ora cerca di intraprendere il cammino di Siddharta per raggiungere il Nirvana. La sua richiesta al maestro Apo di provare a vivere nel mondo civile non può che essere esaudita.
Non si può percorrere l’ascesi se non si conosce quello che si lascia.
Anche i nostri seminaristi (ben altra religione, altre regole) avevano a disposizione delle “prove” per poter poi proseguire per la vita clericale. A tal proposito ricordo di aver frequentato ragioneria in un grande edificio prima adibito a “seminario” (crisi delle vocazioni sacerdotali).
Dopo questa parentesi di paragone con la chiesa cattolica torno a raccontare del film.
Tashi incontra Pema e cerca di vivere la sua vita normalmente, ma si lascia travolgere dal desiderio, dall’egoismo e dall’adulterio. Passaggi necessari verso un destino forse già determinato.
Non meno importante il ruolo della donna vista alternativamente Marta o Maria. L’oggetto del desiderio, la tentazione che allontana dalla via e la silenziosa custode di una realtà che permette – nel ruolo di madre o in quello di compagna – a ciascun Buddha di essere tale.
L’unico film tutto girato ad oltre 4.000 metri con paesaggi stupendi che sembrano non lasciare spazio alla narrazione, ci mostra in poco più di due ore quanto possa essere complicato spiegare l’essenza del nome stesso del film : Samsara.
L’insieme delle scelte di ogni individuo deve compiere per essere o diventare se stesso.
Archiviato in:CINEMA, Recensioni Tagged: Cinema, Recensioni, religione