L’accelerazione drammatica della seconda parte, non priva di qualche limitazione che vedremo tra poco, inscena l’impossibilità della fuga con un’escalation inumanizzante che non lascia apatici (probabilmente il momento in cui anche Dalila inizia a sniffare benzina assume i contorni del punto di non ritorno), ma tra le righe adopera sempre coordinate musicali per definire stati emotivi nonché per sciogliere nodi narrativi, e durante la deriva urbana Thornton non può fare altro che deprezzare la loro spinta vitale riducendo la musica a sgangherate cantilene proferite da un barbone. Esulando da questo discorso comunque validante che riguarda il sonoro (tra l’altro oggetto di manipolazioni tecniche, vedasi Sansone che si tappa le orecchie o la scena del ballo notturno), il film ha almeno un’altra freccia al suo arco, ovvero la costruzione di un rapporto (...sentimentale) che prescinde dalla parola e si costruisce nel singolo gesto (la mano che scansa la bottiglia per incontrare l’altra mano), ma, nell’insistere sulla tragedia nel contesto urbano pecca un minimo nel voler ribadire tale dimensione proponendo per due volte consecutive un medesimo scenario che se da una parte vuole sottolineare l’alienazione di Sansone, riuscendoci, per carità!, dall’altra si ripete e forse esagera un poco accanendosi sulla povera Dalila (passi il repentino incidente, ma l’altrettanto rapido adescamento non ha motivazioni se non quelle di imbrunire la sceneggiatura).
Ad ogni modo si tratta dell’unico appunto che il sottoscritto si sente di segnare sul taccuino, Samson & Delilah (2009) è cinema il cui nucleo pur essendo già stato raccontato in passato, e in egual modo verrà raccontato anche in futuro, possiede quel briciolo di dignità per appartenere alla categoria.