Quando ho scoperto che il Santo patrono del luogo in cui vivo ora è lo stesso del paese da cui provengo ho pensato a uno strano scherzo del destino. Con tutti i posti in cui potevo andare a vivere, mi sono detto sorridendo a denti stretti.
A Comacchio, il mio paese d’origine, San Cassiano era la festa che tutti i ragazzi e le ragazze aspettavano con ansia. Forse ora non è più così, i tempi cambiano, anche se sembrano rimanere sempre gli stessi, anche per i piccoli paesi. Per me che ero abituato a guardare scorrere la vita fuori da una finestra, che sognavo luoghi lontani in cui fuggire, che nascondevo libri che, probabilmente, i miei genitori non avrebbero compreso, San Cassiano era il culmine del mio isolamento. Da bambino era solo una festa, un momento per costringere mamma e papà a portarmi alle giostre, per cercare di vincere qualcosa alla bancarella delle paperelle o per farmi comprare le caramelle. A dodici anni era già tutto finito, mi stavo trasformando in un ragazzo schivo e brufoloso che i miei genitori faticavano a capire. Uno “strano” che parlava poco e piangeva tanto, che non si relazionava con gli altri e che non aveva amici.
Gli altri erano quelli che mi chiamavano checca e che mi urlavano “urachion”, che in comacchiese significa frocio.
Così, quando i miei genitori si presentavano in camera chiedendomi se volevo andare con loro a fare un giro alla fiera di San Cassiano io rispondevo di no. Anzi scuotevo il capo, in silenzio, incapace di spiegare perché mi sentissi così terrorizzato ad uscire. E non avevo risposte nemmeno quando mi chiedevano come mai non avessi amici. Un amico, a dire il vero, ce l’avevo. Era un altro emarginato come me. Io ero frocio, lui era grasso. Eppure quando ci incontravano per la strada non lo prendevano in giro per il suo peso, lo prendevano in giro perché usciva con un frocio. A scuola io ce la mettevo tutta nel gioco al massacro del tutti contro tutti. Perché è ovvio e normale che a quell’età i problemi li hanno tutti e che tutti, prima o poi, si devono confrontare con le derisioni e le prese in giro. Noi poi eravamo una classe piuttosto variegata: c’ero io che ero frocio, il mio amico che era grasso, uno che si prendeva in giro perché più povero degli altri (anche se non era vero, quello era il suo triste posto in tutta questa vicenda) un altro che puzzava, quella che tutti chiamavano cita, senza motivo, poi, perché era una delle ragazze più carine. Era forse più fragile delle altre, e la fragilità, a quell’età, è un difetto che non si può perdonare. Le cose quindi potevano andare bene quando ci si massacrava a vicenda, se qualcuno se la prendeva con quello povero lui cercava di spostare l’attenzione su quello che puzzava e alla fine, inevitabilmente, l’attenzione si concentrava sul frocio. Parlo ora con cognizione di causa perché mi rendo conto che è vero che a quell’età ognuno è solo e fragile, c’è chi lo nasconde meglio di altri e chi, come me, lo esteriorizzava condannandosi al patibolo. Non parlo mai con leggerezza di bullismo e neppure di omofobia, non amo “strumentalizzare” nulla, figuriamoci il dolore. Ma chi non ha scordato di esser stato ragazzo e fragile sa bene che gli adolescenti, anche quelli molto diversi tra loro, prima o poi si coalizzano. E quando si coalizzano, spesso, è come giocare a carta/sasso/forbici nel grasso/povero/frocio il frocio è quello che perde sempre. Non è piacevole per me raccontare parti di un passato che vorrei tenere nascosto, non per vergogna ma per la sofferenza che quei momenti hanno provocato in me.
Io non ricordo moltissime cose. Troppe forse perché la mia mente ha cancellato interi momenti della mia esistenza. Ogni tanto riemerge un ricordo che credevo perduto e il petto esplode perché non sono quasi mai ricordi piacevoli. Ho passato buona parte della mia esistenza a sentirmi sbagliato a causa di quella parola, “urachion” , che gli altri mi urlavano con tanta leggerezza.
Comacchio è un paese splendido in cui ho conosciuto persone meravigliose (una delle mie due migliori amiche è nata e vive a Comacchio) eppure io non riesco a vedere la sua bellezza. Non ho mai smesso di nascondermi da quei ragazzi, anche se magari ora sono padri, anche se non pensano mai a quel ragazzino che si nascondeva dal mondo, anche se, magari, sono cresciuti e cambiati.
Se sei abbastanza forte o fortunato da sopravvivere a quei momenti, all’adolescenza, al dolore di quegli anni ti aspetta, in molti casi, una strada tutta in salita che passa per il senso di colpa e, si spera, arriva all’accettazione. Ci sono ex ragazzi, oggi uomini, che hanno scelto di non seguirla la strada dell’accettazione, che per non confrontarsi con quella brutta parola dal suono sgradevole, hanno scelto di vivere la doppia vita. Perché in una società violentemente sessuofoba e maschilista come la nostra non è facile vivere serenamente la propria esistenza, il proprio essere.
Eppure la serenità io l’ho trovata solo quando mi sono accettato, solo quando mi sono detto che la mia vita era troppo importante per rovinarla a causa dell’ignoranza della gente.
È questo che vorrei dire a coloro che si ergono a paladini della moralità. Non c’è moralità nel vostro odio, non c’è ragione nelle vostre proteste, non c’è logica nel vostro preservare una superiorità inesistente. Riappacificatevi con voi stessi, con il vostro Dio, con il mondo reale e smettetela di nascondervi dietro l’ipocrisia del: “è contro natura”.
La natura sa bene quello che fa, ve lo dice quel ragazzino spaventato che è ancora in me e ve lo dice l’uomo che a quel ragazzino, oggi, a 37 anni, deve il proprio essere.
Arrendetevi, fate parte del passato.