A San Cristobal la pioggia ha una voce speciale. Cade densa e sembra il respiro di una nuvola intera. Dà vita, si sente che dà la vita come le piogge buone del nostro passato, quelle figlie d’una preghiera. Non ci sono fogne a San Cristobal, e le strade, anche le più piccole, hanno l’aria di lunghi saloni colorati dove la pioggia è libera di farsi una ragione d’ogni cosa, dei preventivi, della contestazione, della guerra che c’è stata con molti morti e tante sparizioni. La gente cammina uno dietro l’altro per sfruttare un pezzo di cornicione. Si va radente ai muri, muri rossi e gialli di pietra viva, tanto per le chiese quanto per le case dei miserabili. Nella pioggia i miserabili hanno visi senza miseria, non si vedono, non si spostano, ma i loro tessuti e le frange dicono ugualmente dove andare, il sentiero, la via della luce. Seguiamoli, ed entriamo dove ci si ripara. Un tenda. Il portone di una basilica. Dentro è buio e il legno lo senti bene, mescolato col fragore della pioggia e gli aghi di pino che crollano ovunque senza sosta. La gente, che era in fila, ora prega scuotendo le teste e accende lumini in grossi bicchieri, strappa nastri colorati, scrive il problema, lo lega alla panca. Ce ne sono un migliaio. Dio ha tratti sanguigni, dentro la chiesa e sotto la pioggia. Allora lo invidio e faccio ritorno. Uno di noi sta dormendo. L’acqua gronda sul tettuccio di lamiera. Sono passi, ci camminiamo sopra. Qualcuno, sicuramente, deve avere pregato con molta insistenza.