«I met the Bishop on the road/and much said he and I./ [...]/“A woman can be proud and stiff/ When on love intent;/But Love has pitched his mansion in/ The place of excrement;/For nothing can be sole or whole/That has not been rent”». – William Butler Yeats, Poesie, a cura di Roberto Sanesi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1974
Con quanto malcelato disagio una buona fetta della società fatica ancora ad arrendersi alla caparbietà con cui una mela, una rotonda, rossa e sanguigna mela può essere colta da una donna curiosa di sapere. Ed il disagio, l’inadeguatezza, l’ostinata violenza sociale finiscono poi col condannare a morte la donna, il senso del ricercare appassionato viene maledetto e la mela viene nascosta, frutto perverso e peccaminoso. La bellezza è condannata ad essere l’eterna prigioniera: chi ha il potere di plasmare e dirigere gli animi dei più decide che lo slancio vitale venga soppresso, mortificato, nascosto al mondo dietro i muri spessi di una cella. Marco Bellocchio ha imparato a sfidare i muri delle celle, ha imparato a mostrarci ciò che si agita dentro, fuori ed attorno alla donna che ha osato ricercare ed alla sua bellezza reclusa.
Con “Sangue del mio sangue” Marco Bellocchio sfida l’asfittico sistema delle prigioni e delle convenzioni – anche cinematografiche – scegliendo di costruire un gioco di rimandi e di sillogismi spiazzanti che si rivelano senza mai semplicemente raccontarsi o esplicitarsi. Rimangono alcune intuizioni, solo suggerite dallo sguardo del regista stesso che con opportuni movimenti di macchina e inquadrature schiette, riesce a staccare i personaggi dallo spazio che li circonda senza astrarli mai completamente. Tutto, persino i granelli di polvere, sono fortemente presenti nella scenografia di Andrea Castorina, perfetta cornice delle azioni. Questo è il seme che genera il plot principale: Benedetta, giovane monaca – interpretata da una Lidiya Liberman mai eccessiva, sempre enigmatica quasi quanto una dama leonardesca – seduce il suo confessore che sceglie di suicidarsi per non cedere oltre al peccato. Quando Federico Mai, gemello del sacerdote suicida, giunge al convento di Bobbio, rimane avvinto dall’enigma e dalla bellezza di Benedetta, pur scegliendo di schierarsi con il dogmatico potere degli Inquisitori.
Pier Giorgio Bellocchio ben incarna l’uomo confuso, dubbioso eppure radicalmente conformista che Federico Mai rappresenta: il tormento del personaggio di fronte agli abiti del gemello suicida s’intuisce dal movimento delle labbra, dalla lingua posta tra i denti come se pregasse e nell’incedere rapido, scattante che tradisce una certa insofferenza. Il desiderio di Federico Mai, che tenta costantemente di restare distante dalle torture inflitte a Benedetta, è essere la proiezione del fratello cui è intimamente, visceralmente legato. Eppure Federico Mai, il cui cognome risponde come un imperativo categorico a qualsiasi ipotetica domanda e proposta, non è un ribelle, forse lo è il fratello che si sottrae al suo voto.
Marco Bellocchio riesce a tradurre con leggerezza la pesantezza del meccanismo sociale che racconta, sempre sospeso tra surrealismo e profondo realismo: “Sangue del mio sangue” è un gioco di specchi e di proiezioni, di volti che si somigliano eppure sono diversi tra loro, di doppi, di complementari e di gemelli. I gemelli erano già presenti in “Gli occhi, la bocca”, ma in “Sangue del mio sangue” assumono un senso di ironica tragicità; le due sorelle zitelle Marta e Maria Perletti sono un esempio dell’ironia sottile, dell’umorismo coraggioso di Bellocchio. Federica Fracassi e Alba Rohrwacher sono in perfetta sintonia: piegano il capo con lo stesso intenso pudore, si sorreggono l’una con l’altra, abbassano lo sguardo con la medesima intenzione ed allo stesso tempo mantengono ciascuna la propria peculiare fisicità e capacità interpretativa. Federica Fracassi è una sorella maggiore che sorregge il desiderio della seconda e con un battito di ciglia disvela la volontà di non perdere l’occasione di scoprire l’amore. Le due sorelle pallide, delicate e fragili, cedono alla curiosità, si lasciano sedurre da Federico Mai e Bellocchio rende questa scoperta affettiva con il piano prospettico del quadro di Mantegna: Federico Mai appare come il “Cristo morto”, ma le pie donne gli sono accanto e lo amano molto più carnalmente. Bellocchio riesce a mescolare la carne e lo spirito, ad essere evocativo e materico allo stesso tempo. Sin dalla prima scena è la fotografia di Daniele Ciprì, ora carica di chiaroscuri ora splendente, a rendere ancora più viscerale la coralità della storia – ottimi, tra i tanti, Toni Bertorelli, Fausto Russo Alesi, Patrizia Bettini e Sebastiano Filocamo -. Coralità insistita anche nella scelta delle musiche di Carlo Crivelli: dal “Dies Iræ” all’arrangiamento disteso di “Nothing else matters” dei Metallica.
Se ne “L’ora di religione” il protagonista, il pittore Ernesto Picciafuoco (altro cognome “parlante”) propone il suo ateismo con coerenza e riesce a professarlo semplicemente decidendo di innamorarsi di una donna – in quel contesto Bellocchio propone la donna come una figura autonoma e riconosciuta dal protagonista, positivamente portatrice di desiderio -, il giovane uomo d’armi Federico Mai in “Sangue del mio sangue” sopprime l’istinto di ribellione, sopprime il senso del suo desiderio di ricerca: la donna viene “esorcizzata” e la sua diventa una bellezza che deve resistere, che non deve rinnegare la forza del suo saper amare e sacrificarsi perché una verità più comoda venga riconosciuta dal clero.
I sorrisi degli Inquisitori, i sorrisi di Benedetta piangente, e poi i sorrisi delle giovani della Bobbio contemporanea che Bellocchio propone nel secondo plot che si sovrappone e affianca il primo, paiono riprendere il senso del sorriso de “L’ora di religione” attraverso il quale il protagonista spiega a sé e ai fratelli il valore del legame con la madre che a tutti i costi si vuole santificare: «Solo oggi, tre persone mi hanno scoperto mentre sorridevo. Il cardinale Piumini, il conte Bulla e zia Maria. Il mio sorriso che poi è il tuo, di Erminio, di Eugenio, perfino, è il sorriso di mia madre. Un sorriso indifferente, mortale, perché… di chi pensa che ti ha in pugno soltanto perché ti ha messo al mondo, un sorriso che non mi sono mai riuscito a strappare dalla faccia! Un sorriso da furbo, da fallito». Il sorriso dei personaggi di “Sangue del mio sangue” è esattamente il sorriso beffardo di chi ha in mano il mondo (gli Inquisitori), di chi furbamente si adatta al mondo – come il pazzo del secondo plot, cameo strepitoso di Filippo Timi – e di chi ha fallito perché è entrato in uno dei tanti sistemi del mondo, ma forse non nel sistema che realmente avrebbe voluto per sé (come le sorelle zitelle Marta e Maria Perletti). E poi c’è il sorriso di Benedetta che è il sorriso della sincerità più profonda – chi è sincero ama senza rinnegarsi – ed è anche il sorriso della Bellezza pura e ostinata, che per quanto si possa rinchiudere, è e sarà sempre indistruttibile perché consapevole di sé.
Nel sovrapporre e incastrare tra loro i due plot, e i due piani temporali, Marco Bellocchio ci svela il meccanismo di un orologio smontandolo secondo il proprio estro, e ci dimentichiamo del movimento delle lancette concentrandoci su un pezzo per volta: i diversi piani temporali si intrecciano, ma restano facilmente distinguibili (complici gli splendidi costumi di Daria Calvelli che gli attori rendono “vivi” e piacevolmente sgualciti); è sconvolgente il ripetersi della sofferenza malcelata, della lontananza, l’eterno ritorno di una sistema sociale violento ed ipocrita, settario.
Roberto Herlitzka, sempre interprete magistrale, è il “vampiro” che da otto anni fugge al mondo dei vivi, è il Conte Basta – altro cognome ed imperativo categorico che però squarcia la ripetitività e apre il mondo, cioè Bobbio, al cambiamento -. Il Conte Basta è un Enrico IV di pirandelliana memoria circondato, al pari dei cardinali del primo plot, da un consiglio di potenti sobillatori (l’evanescente Dottor Quantunque per esempio) che stentano a mantenere Bobbio borgo selvaggio ed autarchico condensato nelle stanze del convento.
Ancora una volta ne “L’ora di religione” un personaggio anticipa il rapporto tra l’uomo ed il suo tempo che si fa poi più evidente in “Sangue del mio sangue”. «L’eternità è un investimento sicuro, lo dice anche la parola. È un valore assoluto che cresce nel tempo e sopravvive a tutti i cambiamenti. Come le banche. Non perdiamo tempo in domande e risposte. Andiamo oltre, oltre le parole». Succede anche che il Conte Basta ci parli della sincerità dei nostri giorni, di questo continuo “mettere in piazza” la propria coscienza, come di una perdita di tempo; perché spesso ci si dà in pasto al web in maniera del tutto incoerente rispetto a ciò che in realtà si è, ed il processo della confessione e della maturazione di se stessi è sostituito da un immediato lancio di parole vuote. E il Conte Basta non sbaglia: mettere in piazza la propria coscienza significa aprire un vaso di Pandora senza criterio, aprirsi alla chiusura, esercitare una non-critica, adattarsi all’insignificante. Ma è anche vero che il Conte Basta rappresenta l’evoluzione diretta del clero e degli Inquisitori che condannavano Giordano Bruno al rogo e torturavano le donne perché ammettessero di essere streghe: il Conte Basta rappresenta un potere corrotto e ottuso che non accetta il cambiamento, oscurantista e cinico che condanna la bellezza, ma la tiene per sé e non ripudia l’erotismo dei quadri con cui abbellisce il proprio rifugio. C’è poco da fare domande se c’è un consiglio, un organo già preposto a emanare regole e doveri e diritti.
Herlitzka non propone, però, un uomo morboso: la sua interpretazione sposta la riflessione oltre. Questo vampiro è, in fin dei conti, uno sconfitto: capisce perfettamente il mondo, i suoi cambiamenti, le sue angosce e sa perfettamente come mantenere un vantaggioso “status quo”, ma è un uomo solo, che deve resistere in un consesso capace di esautorarlo in qualsiasi momento. È il rappresentate di un gruppo di cui, però, non è a capo: la coesione, gli intenti comuni, sono sostituiti dagli interessi più che personali, dalla volontà di proteggere solo e soltanto se stessi.
«Non tutte le morti hanno lo stesso significato» è una battuta del dialogo tra Aldo Moro (ancora Herlitzka diretto da Bellocchio) e uno dei suoi sequestratori in “Buongiorno, notte”. In “Sangue del mio sangue” è vero peraltro che non tutte le vite hanno lo stesso significato e non tutti gli istanti hanno lo stesso peso. Inevitabilmente Bellocchio sancisce la rottura dell’eterno ritorno attraverso la morte: muore chi dovrebbe essere immortale, muore chi ha costruito le prigioni, ma non muore la bellezza, non muore lo slancio vitale che viene solo dal desiderio di conoscere e ricordare, anche di ricordare il sangue che ci dà il sangue.
“Sangue del mio sangue” – film riconosciuto di Interesse Culturale Nazionale e realizzato con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento dello Spettacolo – è vincitore del Premio FIPRESCI alla 72ͣ Mostra del Cinema di Venezia.
Written by Irene Gianeselli