Per “razionalizzazione” si intende un’operazione di politica economica finalizzata a rendere più efficiente il funzionamento di un sistema economico, attraverso il contenimento (o l’azzeramento) degli sprechi. Il termine è talmente abusato nel dibattito italiano da renderlo sostanzialmente vuoto e, al tempo stesso, da renderlo socialmente accettato, dal momento che è difficile immaginare che un cittadino dotato di buon senso possa invocare politiche che incentivino prassi inefficienti. Va però rilevato – cosa ben nota agli addetti ai lavori – che, in Italia, con la massima intensità negli ultimi anni, per razionalizzazione si intende, di fatto, un’azione unicamente finalizzata a ridurre la spesa pubblica, che prescinde del tutto da considerazioni relative all’efficienza ed è unicamente motivata con l’obiettivo di accumulare avanzi primari.
Si considerino, a riguardo, e a puro titolo esemplificativo, due provvedimenti in discussione ai fini dell’approvazione della Legge di Stabilità: la decurtazione di fondi pubblici per l’acquisto di beni, servizi e dispositivi medici, e l’aumento dell’orario di lavoro – a parità di stipendio – per i docenti delle scuole medie e superiori. Si tratta, come si vuol far intendere, di operazioni di razionalizzazione? Per rispondere a questa domanda, occorre chiarire che – come attestato da un’ampia evidenza teorica ed empirica – l’investimento pubblico in sanità e istruzione è, anche dal punto di vista liberista, un investimento di massima rilevanza per la crescita economica, per ragioni facilmente comprensibili, dal momento che è ovvio che un’economia composta da individui istruiti e in buone condizioni di salute è potenzialmente più produttiva di un’economia popolata da individui poco secolarizzati e in peggiori condizioni di salute. E occorre sgombrare il campo da una ipotesi falsa o comunque tutta da dimostrare; secondo la quale è solo rendendo scarse le risorse di cui un individuo (o una collettività) dispone, che si incentiva a farne un uso efficiente.
Nel primo dei casi qui evidenziati, potrebbe trattarsi di un ulteriore passo verso la privatizzazione del sistema sanitario nazionale ma, a ben vedere, l’importo è eccessivamente modesto per produrre questo esito, almeno nel breve periodo. Peraltro, come è stato dimostrato, nonostante le dichiarazioni del prof. Monti, il sistema sanitario pubblico non è a rischio: può ovviamente diventarlo se lo stesso prof. Monti, in qualità di Presidente del Consiglio, si adopera per metterlo a rischio. Ma, a fronte di questo, non si capisce per quale ragione la decurtazione di fondi alla sanità possa costituire un’operazione di “razionalizzazione”, ovvero non si capisce per quale ragione ridurre il finanziamento per l’acquisto di macchinari possa rendere il sistema sanitario più efficiente.
Il documento tecnico di accompagnamento alla Legge di Stabilità 2013 stima che l’aumento dell’orario di lavoro dei docenti di scuola comporterà risparmi per circa 700 milioni di euro, derivanti dalla totale cancellazione delle supplenze. Si tratta di far guadagnare al sistema scolastico maggiore efficienza? Con ogni evidenza, no. Il solo effetto che questa norma può produrre è accrescere la disoccupazione nel settore. In un’economia che sperimenta un significativo calo demografico e un tasso di crescita – su fonte ISTAT – nell’ordine del –2.4%, è arduo immaginare che gli attuali supplenti troveranno impiego in altri settori o che diventeranno docenti di ruolo. Ancor più se si considera l’imminente concorrenza che eserciteranno i vincitori del mega-concorso voluto dal Ministro Profumo.
Per il sistema scolastico, si tratta di un’operazione che riesce nel non facile intento di scontentare tutti, salvo probabilmente alcuni Dirigenti scolastici ai quali il c.d. DDL Aprea – cardine dell’ennesima “riforma” del sistema formativo – attribuisce maggiori poteri. Ma, al tempo stesso, istituendo la possibilità di finanziamenti privati alle scuole, il DDL Aprea, di fatto, sottrae loro poteri sostanziali, dal momento che, laddove questo dovesse avvenire, il potere effettivo sarebbe ovviamente nelle mani del finanziatore. In più, l’ingresso dei privati nella scuola (non riuscito neppure nelle Università) è da considerarsi un’ipotesi del tutto remota per due ragioni. In primo luogo, e in una prospettiva di breve periodo, la riduzione dei profitti – soprattutto per le imprese collocate nelle aree periferiche (Mezzogiorno, innanzitutto) – non lo consente. In secondo luogo, e soprattutto, l’istruzione è tecnicamente un bene pubblico.
L’istruzione di base fornisce capitale umano ‘generico’, facilmente trasferibile da un’impresa a un’altra, così che la spesa effettuata dalla singola impresa può generare “esternalità positive” a vantaggio delle sue concorrenti: in tal senso, l’investimento privato per la formazione di capitale umano generico è, di norma, non conveniente. Anche in questo caso, la norma introdotta serve unicamente a “far cassa”, o quantomeno a provarci, spostando l’onere del finanziamento dell’istruzione dal pubblico al privato.
L’irrazionalità di queste misure si rende palese alla luce di due considerazioni.
1) Poiché l’investimento in sanità e scuola è essenziale per la crescita economica, il disinvestimento, per conseguenza, non può che produrre un ulteriore calo del tasso di crescita. E’ una strategia controproducente anche per l’obiettivo governativo di “far quadrare i conti”, essendo ormai chiaro che quanto meno lo Stato spende (in particolare in questi settori), tanto minore risulta il tasso di crescita, tanto più aumenta l’indebitamento pubblico. A quanto pare, su questo fronte, l’ideologia acceca. Proprio a seguito della reiterazione di politiche di riduzione della spesa (e di aumento dell’imposizione fiscale), accentuate in particolare nell’ultimo anno, il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato.
2) Rendere sempre più scarse le risorse aumenta semmai i livelli di conflittualità, non l’efficienza del sistema. Si calcola, a riguardo, che, nel corso dell’ultimo biennio, si è assistito a una crescita estremamente rilevante del numero di scioperi: dunque, ore lavoro perse e aumento dei costi di repressione e sorveglianza, ovvero meno produzione e più spesa.
Le operazioni di “razionalizzazione” hanno una loro tecnica consolidata, che si attua in quattro mosse. Si individuano i settori più vulnerabili, perché non adeguatamente difesi sul piano politico e, dunque, dotati di scarso potere contrattuale, e/o i settori non ancora sufficientemente colpiti. Si argomenta che tutti devono contribuire a “fare sacrifici”. Si amplificano, sul piano mediatico, i più eclatanti casi di spreco e, se questi non sono eclatanti (o proprio non esistono), li si fa passare come tali. Si legittimano, conseguentemente, i tagli.
Fonte: Micromegaonline
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