Che piaccia o no, il Festival di Sanremo ha scandito il nostro tempo… a partire dal lontano 1951, anno del suo inizio, fino a oggi.
Vorrei dedicare questa pagina di Letteratitudine al Festival della canzone italiana e a qualcuno dei libri da esso ispirati.
Come ha scritto Giovanni De Luna su Tuttolibri del 5 febbraio 2011, “Sanremo cominciò nel 1951, con una «tre giorni musicale» (29-30-31 gennaio) trasmessa alla radio. L’orchestra la dirigeva il maestro Angelini e i cantanti erano solo due (Nilla Pizzi e Achille Togliani), con il supporto del Duo Fasano. Tutto qui. Pure, un Festival nato in sordina, senza «lanci» e «promozioni», riuscì a far diventare famose in una sola sera (e con un solo «passaggio» radiofonico!) molte canzoni, non solo quella vincitrice. La serata conclusiva fu seguita da circa 25 milioni di ascoltatori. Oggi quella data è diventata storica tanto da dare l’impressione che raccontare le vicende del festival sia un po’ come scrivere pagine importanti del nostro passato, quasi che anno dopo anno le sue canzoni abbiano composto la colonna sonora della nostra quotidianità”.
Il riferimento è al volume pubblicato da Carocci e scritto da Serena Facci e Paolo Soddu, intitolato: “Il festival di Sanremo. Parole e suoni raccontano la nazione”.
Ecco la scheda del libro: “Il 30 gennaio 1964 Gigliola Cinquetti, accollata in un abitino acqua e sapone e lanciando occhiate maliziosamente candide, debuttò a Sanremo: “Non ho l’età”, ideata da professionisti di lungo corso come Nisa, Panzeri e Colonnello, non era solo l’efficace confezione melodica di un testo esile con un buon attacco. Era il frammento di un più complessivo discorso sulla nazione e in questo caso una delle risposte alla sfida dell’autodeterminazione femminile e della libertà sessuale. Quella serata non è che un tassello di una foto di famiglia lunga 60 anni nella quale riconosciamo volti e voci diventati monumenti nazionali incontestati (da Nilla Pizzi a Domenico Modugno, da Mina a Vasco Rossi) discussi (da Claudio Villa a Orietta Berti fino a Toto Cutugno), alcuni dimenticati, altri ancora freschissimi. La tradizione era iniziata nel 1951: l’Italia non riusciva a rielaborare le ferite del recente passato e preferiva alludere a sé stessa ricomponendo come poteva, con leggerezza quasi frivola, reminiscenze da melodramma o realismo da chansonnier, pezzi di una nazione che aspirava alla democrazia e alla modernità. Il Festival è arrivato indenne, sorvolando mille traversie, fino a questi giorni: non è solo audience, kermesse, dietrologie e pettegolezzi, noia o passione; è anche uno dei momenti in cui una fibrillante democrazia occidentale si racconta e si interroga”.Gli amici della redazione di Fahrenheit, che hanno invitato in trasmissione uno dei due autori del libro citato, Paolo Soddu (docente di storia contemporanea alla facoltà di Musicologia dell’Università di Pavia), si domandano…
1. Quali sono le ragioni della lunga durata e dell’eco che ha avuto e continua ad avere la gara che dal 1951 si svolge annualmente a Sanremo?
2. Ragionare su Sanremo può aiutare a decifrare l’evoluzione della cultura nazionale-popolare nell’Italia repubblicana?
3. Esiste un nesso tra l’appuntamento annuale e l’evoluzione storica del paese?
Aggiungo altre domande, per favorire una possibile discussione sull’argomento e sul Festival della canzone italiana in corso quest’anno:
4. Più in generale: cosa ne pensate del Festival di Sanremo?
5. Fino a che punto ha contribuito, nel tempo, alla crescita e alla diffusione della canzone italiana?
6. Ritenete che abbia contribuito anche alla internazionalizzazione della cultura italiana e dell’immagine dell’Italia nel mondo?
7. A vostro avviso, contribuisce di più il Festival di Sanremo allo sviluppo della canzone italiana o i Festival letterari (vedi Mantova) alla crescita della nostra letteratura?
8. E questo Festival? Vi sembra all’altezza dei precedenti? Meglio? Peggio?
Su quale canzone puntereste?
9. Anzi, domanda secca: chi vincerà?
Come sempre, grazie per l’attenzione e la partecipazione.
Massimo Maugeri
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SANREMO 2010
Il Festival di Sanremo edizione 2009, targata Paolo Bonolis, è ormai alle porte.Vi invito a discutere di questo notissimo evento musicale prendendo spunto dal nuovo romanzo di Alessandro Zaccuri: Infinita notte (Mondadori, pagg. 272, euro 18,50).
Col precedente, Il signor figlio (Mondadori, 2007), a Zaccuri è stato tributato il premio Selezione Campiello.
Infinita notte è un romanzo su Sanremo ambientato a Sanremo, zeppo di svariati personaggi (dirigenti Rai, rapper, fan, cantanti, manager, conduttori, giornalisti) messi in scena attingendo a piene mani dalla realtà. Di seguito potrete leggere la recensione di Ranieri Polese, pubblicata sul Corriere della Sera del 13 gennaio (da cui capirete meglio il plot).
Vi invito a interagire con l’autore (che, salvo imprevisti, parteciperà alla discussione in questi giorni pre-sanremesi) e poi a dire la vostra proprio su questo Festival e sul Festival in generale.
Massimo Maugeri
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ALESSANDRO ZACCURI Infinita notte MONDADORI PP. 280, euro 18
di Ranieri Polese (Corriere della Sera del 13/01/2009)
Un romanzo con il titolo di una canzone inventata (Infinita notte) e 23 capitoli ciascuno intitolato con una canzone, vera, che ha vinto Sanremo (da «Grazie dei fiori» ad «Angelo»): dopo il Leopardi de Il signor figlio, Alessandro Zaccuri (nella foto) fa un bel salto. E dai complessi rapporti del poeta con il padre Monaldo (nel libro del 2007 si immaginava Giacomo scampato al colera di Napoli e rifugiato sotto falso nome a Londra) passa a raccontarci le storie che si intrecciano all’ombra del Festival, le strategie della tv, l’agitato popolo dei giornalisti, i sospetti casi di corruzione, i tipi più o meno curiosi che per disparate ragioni si ritrovano nella settimana fatidica a due passi dall’Ariston. «Ma poi tanta distanza fra Leopardi e Sanremo non c’è» scherza Zaccuri, 45 anni, giornalista di Avvenire, scrittore, e conduttore de «Il grande talk» su Sat2000, dedicato all’analisi dei linguaggi e dei programmi televisivi. «Intanto, sono due icone dell’ italianità. Poi, il Leopardi che tutti conoscono a memoria è un Leopardi sanremizzato, zuccheroso, donzellette e passeri solitari, molto diverso dal pensatore crudele, difficile che in realtà era». Sì, però, Sanremo… «È una realtà importante, con una lunga storia alle spalle, resta ancora lo spettacolo numero uno per cui si mobilitano giornali radio e tv. È il dolce tradizionale italiano che tale rimane anche se gli ingredienti della torta sono mutati». Colto ma non per questo viziato da snobismi, Zaccuri guarda a Sanremo come la nostra Nashville, il tempio della musica country americana. «E per il romanzo mi è servito molto rivedere il film di Robert Altman, con il suo mosaico di microstorie che si compongono intorno alle esibizioni dei cantanti e ai loro refrain». Così, senza perdere di vista il lavoro degli autori dei testi e dei responsabili Rai, con un occhio puntato sul non-luogo per eccellenza, la sala stampa che sta all’ultimo piano del Teatro Ariston, Zaccuri congegna tre storie che si snodano su quello sfondo di fiori e canzonette. C’ è l’autore outsider, Raffaele Maria Ferri, già collaboratore dei programmi di Funari e ora scrittore bestseller di un libro-reportage (Tassì Draiv, 800 mila copie) su quello che i tassisti dicono: da Roma gli arrivano notizie belle e brutte, la moglie gli dice che aspetta un bambino, il padre invece è ricoverato senza più speranza. Vorrebbe scappare ma sa che lì si sta giocando qualcosa di molto importante. Poi c’è il rapper SliverG, che si fa chiamare anche Gabo, è arrivato da Roma all’insaputa di un padre molto importante: una sua canzone («Il punto G») è stata rifiutata, ma lui bombarda le strade intorno all’Ariston con un’altra sua composizione, «Infinita notte» (da qui il titolo), che resta nella mente. Infine, del tutto estraneo alla grande kermesse, c’ è anche Miles De Michele, manager italo-americano che si lascia fregare da un mafioso russo in un giro di danaro sporco al Casinò; a portarlo in questo imbroglio è Jeanne, una bellissima ragazza di Mauritius che lo fa innamorare parlandogli della sua omonima Jeanne d’Arc. Infinita notte (Mondadori) è uscito in libreria il 16 gennaio, un mese prima dell’inizio del Festival numero 59 (17-21 febbraio), che segna il ritorno di Paolo Bonolis. E che già occupa i giornali con polemiche a non finire, per un testo sui gay, per il rifiuto di una canzone firmata Sgarbi ecc. «L’ unico Sanremo che ho seguito interamente, in sala stampa con tutti gli altri, è stato quello del 2005, il primo di Bonolis - ricorda Zaccuri -. Forse nel personaggio del Conduttore c’è qualcosa di lui, ma non solo. Il libro l’avevo già scritto a febbraio del 2008, non volevo fare pronostici. Del resto il Sanremo di cui racconto è il numero 60, quello che ci sarà nel 2010». Sì, però ci sono figure molto bene identificabili, tre giornalisti per esempio: lo Stregatto, la Regina di cuori e il Presidente emerito della Sala stampa: ovvero, Mario Luzzatto Fegiz («Corsera»), Marinella Venegoni («Stampa»), Paolo Zaccagnini («Messaggero»). «Sì, sono loro, ma sono anche i pilastri di quel luogo, e ho voluto render loro un omaggio». Su altre figure si gioca più di fantasia: per esempio, Miriam Cascella, eminenza Rai che conosce e manovra i delicati equilibri del potere. O sulla super-ospitata di Britney Spears, convertita da Madonna alla spiritualità della cabala. Intanto il rapper Gabo tappezza le porte del teatro con scritte che tutti ritengono pericolose minacce eversive; la cosa passa su You Tube, l’atmosfera si riscalda, nel giro entrano Fancy e Vanessa, due ragazzine di Torino calate in Riviera per vedere i cantanti, che subito s’innamorano del cantante di strada. E poi c’è la «nuova proposta» Sarah X, già pornostar, inevitabile scandalo da prima serata. Anche se fiction, questo Sanremo di Alessandro Zaccuri è terribilmente verosimile. Resta da chiedersi, da chiedergli, che cos’è veramente Sanremo. «Negli anni ‘50 - ‘60 è stato veramente il grande romanzo popolare italiano, lo specchio in cui la gente poteva proiettare i propri sogni. Poi, superata la crisi degli anni ‘70 (la Rai per anni si limitò a trasmettere in tv solo la finale), il Festival ha cambiato pelle e sostanza. È diventato un grande evento televisivo, ospiti internazionali di richiamo, comici, intrattenimento, tutto pensato per l’Auditel, con le canzoni che perdevano la loro centralità. Certo, seppure con tutti questi condizionamenti, Sanremo è l’unico momento in cui la tv si occupa di musica italiana. Prima, per lunghissimi anni, era l’unico Festival, “il Festival”. Ora i festival si sono moltiplicati (Mantova, Roma, Modena eccetera, letteratura, cinema, filosofia). E certe regole - il divismo, le passerelle - si sono diffuse anche in altri contesti. Però Sanremo rimane un grande campionario di umanità, sarebbe sbagliato giudicarlo come un format, un clone di qualche reality. Realmente qui succede qualcosa, ci sono persone che ci mettono i loro sogni, le loro capacità. Non ci sono solo i personaggi. Un romanzo questo deve fare: scoprire la persona dietro il personaggio».Ranieri Polese
da Corriere della Sera del 13 gennaio 2009, pag. 42
L’ autore Alessandro Zaccuri è nato a La Spezia nel 1963. Giornalista e scrittore, lavora nella redazione culturale di «Avvenire» I libri Tra i suoi libri: «Citazioni pericolose» (Fazi), «Il signor figlio» (Mondadori), «In terra sconsacrata» (Bompiani)
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AGGIORNAMENTO DEL 18 FEBBRAIO 2009
Così come d’accordo, Alessandro Zaccuri mi ha passato i suoi “pezzi sanremesi” a metà strada tra Festival della canzone e letteratura (intitolati “E se Sanremo…”) e pubblicati su Avvenire. Credo che possano aiutarci a favorire il dibattito. Li potete leggere qui di seguito.
Massimo Maugeri
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E se Sanremo 1
Pubblicato su “Avvenire” del 17/2/09
di Alessandro Zaccuri
E se Sanremo fosse un racconto, magari di un maestro come Stephen King? Beh, allora probabilmente sarebbe “Tutto è fatidico”, che è poi anche il titolo di una corposa raccolta mandata in libreria dal Re (lo chiamano così, e non soltanto per via del cognome) agli inizi del millennio. Una storia di paura, inutile precisarlo. Ma ricca di insegnamenti, come ogni fiaba che si rispetti. Sanremo, del resto, questo è stato e questo cerca ancora, nei limiti del possibile, di essere: una favola che ci tenga incantati per una settimana (scarsa) e che alla fine possa essere riassunta nel ritornello di una canzone. In passato ha funzionato benissimo, da “Grazie dei fior” a “Uomini soli” o giù di lì. Poi qualcosa si è inceppato e aggiustare il meccanismo si è rivelato più difficile del previsto.
Il racconto di King, dunque. Un ragazzo come tanti ce ne sono, in America e altrove. Intelligente, peccato che non si applichi. Però ha un dono tutto suo, che sembra aver a che fare con le arti magiche. Un talent scout misterioso, una carriera che sembrerebbe ben avviata, una crisi irreversibile… Quaranta pagine che filano alla perfezione, sino al gran finale. Quello che interessa qui, a ridosso del Festival, è il titolo: “Tutto è fatidico”. Appunto. A Sanremo, da sempre, tutto è immancabilmente fatidico, spesso emblematico, non di rado metaforico. Un sospiro diventa una tempesta, una notizia provoca sconquassi, lo scenario evoca in continuazione l’alternativa tra il “la va” e il “la spacca”. Succede ogni anno, anche quando la conferenza stampa della vigilia è più rassicurante di quella tenuta ieri dal direttore di Rai1, Fabrizio Del Noce: siamo a un bivio, ha detto, o si sbanca l’Auditel oppure…
Tutto è fatidico, insomma. Nel suo racconto, inoltre, Stephen King introduce un’annotazione interessante. Che riguarda la paura, tanto per cambiare. Ma che può essere utilmente applicata ad altre categorie, Festival di Sanremo compreso. King sostiene infatti che un conto è la paura televisiva, un conto è la paura vera. Attenzione, però, perché la paura televisiva non è quella che si prova mentre si contempla il piccolo schermo. Al contrario, è quella che ci coglie quando ci troviamo in una situazione che, secondo i dettami della tv, dovrebbe spaventarci. Tipo la porta che cigola, per intenderci. Sappiamo che non è niente e che dovremmo soltanto deciderci a oliare i cardini, eppure un piccolo batticuore ci sentiamo in diritto di assaporarlo. La paura vera, invece, sconfina subito nel panico e, il più delle volte, è pressoché impossibile da motivare. Detto altrimenti: ci sono comportamenti (e sentimenti) che non esisterebbero fuori dal mondo incantato dei media, altri che nei media non trovano rappresentazione. Tutto questo, a modo suo, Paolo Bonolis l’ha ben presente, sa che il Festival non può più permettersi di risultare soltanto televisivo e vorrebbe che all’Ariston si vedesse anche qualcosa di più autentico. Un po’ di “Senso della vita”, senza rinunciare del tutto alle facezie alla “Ciao Darwin”. I giorni scorsi, con le polemiche sul compenso milionario del conduttore-direttore, hanno già dimostrato quanto sia complesso mantenere un simile equilibrio. Ma il bello viene stasera: le luci si spengono, le telecamere si accendono e a Sanremo, una volta di più, tutto diventa fatidico.
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E se Sanremo 2
Pubblicato su “Avvenire” del 18/2/09
di Alessandro Zaccuri
E se Sanremo fosse la vera, la sola, l’inimitabile e necessaria Azione Parallela? “L’uomo senza qualità” di Robert Musil ha fama di lettura impegnativa, d’accordo, ma volete mettere quanto a preveggenza? Prima, molto prima che Guy Debord teorizzasse l’ormai proverbiale «società dello spettacolo», Ulrich e gli altri protagonisti del romanzo hanno a che fare con una realtà che si confonde con la propria rappresentazione, generando figure fantomatiche come il cavallo da corsa a cui viene riservato l’appellativo di «geniale», l’industriale-intellettuale con carriera politica incorporata o l’assassino reo confesso che, nella sua cella di prigione, diventa oggetto dell’ineffabile tenerezza delle masse. Su tutto domina l’indistinto progetto dell’Azione Parallela, che dovrebbe essere la solenne controcelebrazione con cui l’Impero austro-ungarico vanifica i festeggiamenti per il fatale anniversario tedesco. Per dovere di completezza aggiungiamo che il libro di Musil si svolge alla vigilia della Prima guerra mondiale, poco prima che gli imperi crollino e le carte geografiche siano ridisegnate.
Le caratteristiche che apparentano l’Azione Parallela al Festival della canzone italiana sono altre. Il fatto che, non diversamente dal macchinoso progetto viennese, Sanremo ha contorni indefiniti. Non inizia mai quando sembra che inizi, per esempio. Di fatto parrebbe cominciato già qualche mese fa, con le polemiche e le notizie a mezza voce (si fa? non si fa? e la convenzione? e la conduzione?). In meri termini di messa in onda avrebbe esordito ieri sera, con il video di Mina e il saluto del segretario Onu Ban Ki-moon, la superospitata di Benigni e tutto il resto che abbiamo visto. E invece no, in termini di equilibri e prospettive il Festival comincerà soltanto questa mattina, tra le 10 e le 11, quando nella sala stampa dell’Ariston si materializzeranno i comunicati con i dati di ascolto della prima serata. A quel punto si riuscirà a intuire, forse, in quale strategia vadano fatte rientrare le dichiarazioni rilasciate alla vigilia dal direttore di Rai1 (si farà ancora? non si farà). Perché è vero, a Sanremo si contano gli ascolti, ma intanto oggi a Roma, in Commissione di vigilanza Rai, parte la conta dei voti, e la partita è tutt’altro che parallela o estranea rispetto alla kermesse rivierasca.
E poi, non diversamente, dall’Azione immaginata da Musil, il Festival è ancipite e bifronte, molteplice e sfuggente. In Austria, si spiega nelle prime pagine dell’“Uomo senza qualità”, corre una bella differenza tra ciò che è regio-imperiale e ciò che è imperial-regio. A Sanremo no, invece? Le competenze Rai, le competenze degli artisti (conduttore in testa), le competenze nel Comune (per quanto commissariato), le competenze dei discografici…
All’epoca in cui Musil lavorava al suo capolavoro (capolavoro incompiuto, peraltro), la televisione esisteva soltanto a livello sperimentale, sembrava una faccenda da specialisti, eppure gli ingredienti della finzione mediatica erano già tutti riconoscibili e presenti. Non diversamente dal Festival, che andava per radio prima ancora che la tv cambiasse l’Italia. Ma questa sarebbe davvero un’altra storia.
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E se Sanremo 3
Pubblicato su “Avvenire” del 19/2/09
di Alessandro Zaccuri
E se Sanremo, alla fine, fosse davvero Sanremo, punto e basta? Magari un po’ più pericolante che in passato, lontano dai fasti egemonici (di quando? degli anni Sessanta? degli Ottanta?), ma non per questo incapace di improvvise riscosse, anche nell’impervio territorio dei dati d’ascolto. Certo, certo, il bottino della prima serata è tutto da verificare e ponderare con quello della seconda, durante la quale si registra il famigerato “calo fisiologico” che pare assimilare l’Ariston a una nursery (anche i neonati, per quanto non rilevati dall’Auditel, tendono a perdere qualche grammo di peso…). E poi martedì sera Benigni ci ha messo del suo, l’andamento delle curve è lì a dimostrarlo, con quell’impennata che tocca il 60%.
Il risultato, però, è il solito: Sanremo è Sanremo, specie quando è un Sanremo un tantino diverso dal precedente. Questo Paolo Bonolis lo sa bene ed è il motivo per cui, finora, si è rifiutato di serializzare l’evento: conduce un Festival ogni tanto e così fa sempre notizia. Anche Pippo Baudo, quando torna all’Ariston, raccoglie un bel gruzzolo di consensi, ma il suo è un approccio istituzionale, di governo prima che di lotta. Insiste per tornare l’anno dopo e guardate come è andata.
Sul perché Sanremo sia Sanremo, del resto, il mistero permane. Provvisoriamente archiviato il “nazionalpopolare” di baudiana memoria, negli ultimi tempi ha preso a girare un’altra categoria, quella dell’“Irrazionalpopolare”, che è poi il titolo di un provocatorio pamphlet scritto a quattro mani per Einaudi dal critico d’arte Francesco Bonami e dal giornalista Luca Mastrantonio. La tesi centrale può essere così riassunta: nella liquida postmodernità nostra contemporanea il legame fra talento e successo sconfina sempre più spesso nell’ineffabile. Non si capisce come mai qualcosa piaccia, né tanto meno perché qualcuno diventi famoso. Spesso l’unico criterio è quello della tautologia, per cui una rosa è una rosa e – secondo quanto sono costretti ad ammettere gli stessi Bonami & Mastrantonio – Sanremo è Sanremo.
Il boom di ascolti dell’altra sera, dunque, sarebbe nel contempo inspiegabile e incontrovertibile. Un po’ come un celebre episodio della storia culturale francese, dottamente studiato dall’americano Robert Darnton nel saggio “Il bacio di Lamourette”. Nel pieno di una concitatissima riunione dell’Assemblea rivoluzionaria, il deputato Lamourette aveva infatti proposto ai colleghi di mettere da parte le discordie e di stringersi in un abbraccio rappacificatore, suggellato da un bacio fraterno. Proposta incredibile, incredibilmente accolta dagli astanti che, per qualche minuto, dimenticarono le divisioni politiche e si buttarono le braccia al collo. Non è esattamente quello che accade di questi tempi nel Parlamento italiano – e neppure nei consessi riservati dei diversi schieramenti, probabilmente –, ma di sicuro la prospettiva non dispiacerebbe a un conduttore come Bonolis, che in queste serate sta cercando di rappresentare sulla scena del Festival ogni possibile coppia di contrari, ogni immaginabile conciliazione di opposti. In definitiva, se l’irrazionale ha funzionato nella razionalissima Francia di fine Settecento, perché non dovrebbe tornare utile anche adesso, anche qui, anche a Sanremo?
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E se Sanremo 4
Pubblicato su “Avvenire” del 20/2/09
di Alessandro Zaccuri
E se Sanremo, in ultima analisi, fosse davvero una cosa seria? Più seria di quanto ci siamo raccontati finora, più seria di quanto potesse apparire nella prospettiva del vecchio sistema televisivo, quando gli ascolti viaggiavano su ritmi ben diversi da quelli degli ultimi mesi. Una volta, infatti, il Festival era l’evento di punta fra i tanti proposti dalla televisione generalista. Raccoglieva più pubblico degli altri programmi analoghi, ma lo scarto era tutto sommato minore rispetto a quello che, sino a questo momento, gli ascolti del Bonolis Bis hanno fatto registrare. Un anno fa, di questi tempi, l’inattesa flessione della kermesse condotta dalla coppia Baudo-Chiambretti aveva scatenato l’allarme. E da allora, ammettiamolo, la tv italiana non è stata più la stessa, quelli del satellite hanno smesso di essere considerati “nanoshare”, la complessità è diventata parte del gioco e nel gioco, lo sappiamo, può anche accadere che una star come Fiorello decida di splendere in un altro cielo. Su, nello Sky.
Il Festival di Bonolis è partito sotto il segno della sfida e dell’azzardo. Vincendo, a quanto pare, e garantendo così un futuro a una manifestazione che, soltanto alla vigilia, pareva destinata a un futuro incerto, a un pensionamento inglorioso proprio alla soglia del 60 anni. Colpo di scena, gli spettatori ci sono, e non soltanto per fare la ola laggiù, tra i velluti di un teatro Ariston pressoché irriconoscibile, tanto è animato e allegro. Scommessa fortunata, quindi. E azzardo giustificato.
Ma attenzione, perché se la situazione è veramente questa, se Sanremo è tornato a essere Sanremo (la tautologia, ricordate?, è l’anima dello show), allora significa che pensare il Festival e portarlo nelle case degli italiani sottintende ed esige un rinnovato esercizio di responsabilità. Che non significa rinunciare alla risorsa dell’ironia e alle lusinghe della leggerezza, ci mancherebbe altro. Per quanto seria, questa è pur sempre una festa, con l’orchestra che suona e la canzone da mandare a memoria. Però c’è modo e modo, anche nella leggerezza. C’è modo e modo, anche nel declinare l’ironia.
Questa sera, per esempio, all’Ariston va di scena un gruppetto di ragazze svestite. Roba da storia antica, rispetto a quello che si vede in giro, specie se si ha l’abitudine di girare per la Rete. E poi l’invito era partito mesi fa, quando ancora non si sapeva come sarebbe andata e l’idea di suscitare un minimo di scandalo poteva anche sembrare appropriata. Ma il tempo passa, su altri temi scoppiano le polemiche, si ventilano boicottaggi e si organizzano manifestazioni di protesta. Le bellocce sgambettanti, invece, sembrano non interessare a nessuno, come se in queste settimane il corpo femminile non fosse diventato il terreno di una battaglia odiosa e raccapricciante. Tardi per ripensarci, forse, però non sarebbe male se, nelle prossime edizioni, il Festival ci pensasse in anticipo, si decidesse, scegliesse quale parte di realtà raccontare. Perché l’ironia è un dono, non si discute, a patto che non si trasformi in pensiero unico. E perfino la leggerezza, a lungo andare, rischia di non essere più una virtù. Se non restiamo con i piedi per terra, infatti, rischiamo tutti di diventare così lievi che un soffio di vento potrebbe portarci via in qualsiasi istante. Sarebbe un peccato, ora che Sanremo è ancora una volta Sanremo.
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E se Sanremo 5
Pubblicato su “Avvenire” del 21/2/09
di Alessandro Zaccuri
E se Sanremo lo stesse ancora cercando, il suo suonatore Jones? Lui «che giocò con la vita per tutti i novant’anni, / fronteggiando il nevischio a petto nudo, / bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti, / né al denaro, né all’amore, né al cielo». Anche chi non ha mai letto Lee Masters avrà capito di che cosa stiamo parlando, perché Fabrizio De André, quando mise mano al famoso disco tratto dall’“Antologia di Spoon River”, scelse proprio quell’ultimo verso come titolo. Stasera il Festival 2009 chiude con il gran finale, e anche questa volta sarà un successo, forse più prevedibile – ormai – che annunciato. E anticipando un minimo l’esercizio del bilancio conclusivo occorre ammettere che il vero punto di svolta, nella kermesse voluta da Paolo Bonolis, non è stato rappresentato dalla presenza di Roberto Benigni (la notizia, a questo punto, ci sarebbe se l’arcitoscano andasse in onda senza impennate dell’audience), ma quando, nell’altrimenti spoglia serata di mercoledì, i vecchi leoni della Premiata Forneria Marconi sono tornati in scena riproponendo i leggendari arrangiamenti rock delle canzoni di De André. Un incontro musicale datato 1979, trent’anni fa esatti. All’epoca, risultava difficile immaginare una distanza maggiore di quella che correva tra il palco di Sanremo e le esibizioni del cantautore per eccellenza accompagnato dalla band italiana per antonomasia. Il Festival era ai minimi storico, in quel momento. E Faber aveva già fama di poeta.
Oggi, invece, il connubio funziona. La Pfm intona “Il pescatore” con quegli strappi che sappiamo e il pubblico dell’Ariston si alza in piedi per battere le mani, per ballare. Era la prima volta, non è stata l’unica. Scene simili si sono ripetute nella serata di giovedì, specie quando dietro il microfono c’erano Zucchero e Lucio Dalla, Roberto Vecchioni e Gino Paoli. Specie – senza offesa per nessuno – quando al pianoforte sedeva Lelio Luttazzi, forse l’artista che più di ogni altro, in questo Festival che sta già tramontando, ha ricordato la passione assoluta e ingenua di chi, nell’istante in cui fa musica, fa musica e basta.
Che Sanremo abbia bisogno della musica è talmente evidente da risultare banale. Eppure, con il suo andamento da montagne russe tra picchi di procurata estasi e baratri improvvisi di cattivo gusto, il Bonolis Bis ha dimostrato che, al Festival come altrove, è la profondità delle storie ad avere la meglio. E le storie degli artisti, quando l’arte è la musica, sono quelle che si capiscono subito, senza scomodare troppe parole.
A tutto questo, di sicuro, non pensava De André nel 1979, e non ci pensavano i ragazzi terribili della Pfm. Il loro fu il sodalizio tra un autore famoso, che fino a quel momento aveva prediletto un allestimento sonoro spoglio, e l’esuberanza creativa di un gruppo che oggi si direbbe “di nicchia”. Non è proprio la mescola di “alto” e “basso” di cui si è discettato in questi giorni, però è la dimostrazione che il dialogo tra “eccellenze” (lemma prediletto dal Bonolis 09) è possibile. A patto che di eccellenze si tratti. E a patto che ognuno abbia l’umiltà, e il coraggio, di fare bene la sua parte. Di questo, in fondo, andava fiero il suonatore Jones.
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E se Sanremo 6
Pubblicato su “Avvenire” del 22/2/09
di Alessandro Zaccuri
E se Sanremo lo avesse raccontato uno scrittore come Georges Perec? Probabilmente ne sarebbe uscito un mosaico di «io mi ricordo», frammenti anche minimi delle cinque serate cinque che abbiamo seguito in tv, scampoli residuali di polemiche ed effetti annuncio, schegge di referti Auditel, ritagli di fotografie. Non per niente in questi giorni la Panini (sì, quella delle figurine) ha pubblicato un “Almanacco illustrato” in cui le 58 scorse edizioni del Festival sono ripercorse come in un album dei calciatori, cèlo manca, manca cèlo, fai cambio?
Bonolis ci capirà, ne siamo sicuri, perché il suo immaginario di riferimento è proprio questo, tipico di un bambino cresciuto negli anni Sessanta. Altrimenti il conduttore & direttore artistico non avrebbe la fissa dei Queen, non citerebbe Tony Binarelli come modello di prestigiatore e si sarebbe del tutto emancipato dall’idea che una bella donna, per essere considerata bella, debba essere fotografa a doppia pagina.
Bonolis si ricorda, dunque. E anche noi, a evento consumato e show concluso, proviamo a mettere in conto qualche memoria anticipata. Un paio di esibizioni musicali, forse, ma questo si è già detto. La battuta di Benigni su Mina che, ormai, fa come Bin Laden e manda soltanto filmati. Il gioco del coro che intona Mozart alternandosi alle immagini di “Amadeus” (doppio capolavoro, come no: ma controllate gli anni, verificate le date e scoprirete che, cinematograficamente parlando, siamo ancora lì, ai primi anni Ottanta, quando noi giovanili eravamo giovani davvero). Molti ritagli, una pioggia di fermo-immagine, una manciata di clip sonore. Il tutto cucito da un professionismo impeccabile anche quando sembra improvvisare (ah, sì: l’istantanea di Bonolis che, spostando due aste di microfono, dà una mano agli assistenti di palco, anche quella merita un ricordo). Il tutto cronometrato, nella battutaccia come nell’appello alla poesia. Il tutto tanto studiato da risultare, a tratti, quasi irritante.
Però c’è stato un momento, nella serata di venerdì, in cui il Festival ha lasciato davvero con il fiato sospeso. Bonolis, si sa, ha scelto di sostenere una onlus che si occupa di assistenza ai bambini affetti da disabilità grave. Per un paio di minuti sul maxischermo dell’Ariston sono apparsi quei volti, i volti asimmetrici e dolcissimi di chi è stato segnato nell’istante stesso in cui si è affacciato alla vita. Con pudore, ma senza reticenza, si è detto qualcosa di semplice e vero e cioè che un’esistenza può essere degna anche quando il respiro è assistito da una macchina, e che la bellezza rimane tale anche quando esce dai canoni e li contraddice, e che lo sguardo di un bambino è sempre perfetto anche quando appare opaco e sghembo. Più semplicemente, le immagini proiettate l’altra sera e le parole dello stesso Bonolis hanno ribadito che la vita umana rimane umana anche quando l’umanità sembra inabissarsi e ridursi a un niente, a un luce minuscola che si affatica nel buio. Ma è luce e quindi illumina, obbligando a non distogliere lo sguardo.
Sì, può darsi che dimenticheremo molto, di questo Festival e dei prossimi che verranno. Ma quell’improvvisa scintilla di verità ci tornerà alla mente spesso e ci farà dire: «mi ricordo». Che l’uomo è uomo, e la vita è vita. Ricordiamocelo, anche adesso che di Sanremo, per un po’, non si parlerà più.
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Scritto martedì, 15 febbraio 2011 alle 10:06 pm nella categoria SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.