Lo aveva promesso a Suster la settimana scorsa, e alla fine riesce a onorare l’impegno. La colpa è del solito raffreddore, ovviamente (e, sì, i capelli se li è asciugati questa volta); che tanto per cambiare non le lascia tregua. La settimana va così, allagata nel moccio. Nel mezzo, la ‘povna vede un film molto interessante insieme agli Anatri, finisce con i Merry Men di interpretare La Tempesta, parla di poliziesco coi serissimi primini. C’è tempo anche per la vita sociale, pur ridotta (nella misura di un aperitivo con ChiParla). E anche per qualche recensione.
Per onorare il primo incontro con il “giallo” delle Giovani Marmotte la ‘povna sceglie di ricordare un autore Sellerio che – nella generale vague del poliziesco, è rimasto un po’ di nicchia. Si riferisce a Santo Piazzese, e alla trilogia di Palermo: I delitti di via Medina-Sidonia, La doppia vita di M. Laurent e Il soffio della valanga. Che sono divertissements raffinati e consapevoli. E anche (il che non guasta) gialli buoni. Contribuisce alla simpatia che le ispira il personaggio il fatto che – a differenza dei vari Malvaldi (ma anche il grande Camilleri non ne è immune, purtroppo) – Piazzese ha scritto questi tre, e poi poco altro (proprio nei mesi scorsi, Blues di mezz’autunno), dimostrando un’assai commendevole impermeabilità agli zecchini d’oro.
Così, dopo aver lasciato il suo consiglio al venerdì del libro, la ‘povna ritorna al suo aerosol, che la fa bene. Anche perché – la gara col moccio è sempre aperta – non è che le venga in mente di saltare, più di una volta, la piscina.
E’ un narratore lento, quello di Piazzese. Atipicamente tipico. Entra nella storia con volute di divagazioni, che servono a fissare le coordinate di genere, nonché geografico-letterarie. Alla fine, lentamente, tutto va al suo posto e si scopre di avere letto una storia godibile e ben costruita. Resta comunque il romanzo di un professore universitario. (Ma) intelligente. Nell’ultimo, dopo aver giocato meta-letterariamente nei primi due romanzi (citando Vazquez-Montalban, Camilleri, e soprattutto la sua stessa casa editrice), si diverte in divagazioni inter-letterarie interne, creando il racconto parallelo, dal punto di vista del commissario Spotorno, ai fatti narrati nel primo della serie. Esperimento narrativo-sociologico prima ancora che di genere (mafia, fecondazione assistita e chi più ne ha più ne metta – il testo esce nel 2003), pur apparentemente svincolato dai primi due romanzi, è in realtà quello che maggiormente vi si lega, e che meno si comprende senza averli letti. L’elemento più interessante è il gioco dei punti di vista (la focalizzazione, sempre interna, si sposta dal commissario a sua moglie Amalia), interessante anche se non sempre gestito senza sbavature. La storia, doverosamente sciasciana (a lui un omaggio esplicito nel testo), si deve leggere più come apologo da giallo metafisico ((“it’s life, not death, which must be solved”) che nella precisione dei dettagli (i quali, per definizione, scappano). Una frutto singolare, ma che si lascia leggere. Poi, più nulla (ci sono autori con una storia, e una sola, da raccontare: ad alimentare, al termine, la sensazione di scrittura da intrattenimento colto (e seconda professione) dell’universitario. Ma gestita, va detto, con sobria proprietà.