Saracena è un piccolo comune della Calabria...

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Storia congetturale, storia interpretativa....

Saracena (Cosenza) è un piccolo comune della Calabria, che oggi conta poco più di quattromila abitanti, pertanto non è concepibile pensare di poter scrivere la storia di questa microrealtà come se si trattasse di una grande nazione. La prima difficoltà con la quale bisognerebbe fare i conti sarebbe la scarsità di “fonti scritte”. E, se diamo ascolto a un vecchio e noto adagio crociano, una storia senza relazione con il documento scritto è una storia inverificabile

Tuttavia, quando si pensa alla storia, quella, ad esempio, appresa sui banchi di scuola, l’unità di analisi che si ha in mente riguarda le nazioni, i grandi imperi, o le grandi correnti economiche e culturali. Per queste unità macrostoriche, la storiografia diventa una questione di «interpretazione», poiché quando si prendono in esame queste realtà in discussione non sono tanto gli eventi narrati, quanto le diverse prospettive attraverso le quali quegli eventi vengono interpretati. Ed è in questo circolo interpretativo che entra in gioco il ruolo assegnato alla lotta politica e culturale. Per citare alcuni esempi, si potrebbe verificare come, sollecitate da circostanze contingenti, siano cambiate di “senso”, nelle diverse epoche storiche, le lotte dei Comuni contro l’Impero oppure il significato delle Crociate.

Quando si ha a che fare con unità di analisi così piccole, l’errore metodologico che si dovrebbe evitare è di credere di poter applicare, meccanicamente, un approccio storiografico, elaborato per interpretare realtà ben più complesse e articolate, a realtà circoscritte e di proporzioni piuttosto modeste. L’illusione consiste nel credere di poter assimilare la “storia” di un piccolo abitato a realtà di tutt’altre dimensioni e complessità, come se, anziché parlare di un paesino come tanti, stessimo parlando di chissà quale grande metropoli o entità statale. Non ci si accorge che così operando, in prima istanza, si fa torto proprio alla memoria del proprio paese, in quanto non la si rispetti nella propria specificità.

Ogni piccolo “centro abitato”, e Saracena non fa eccezione a questa regola, rientra in una qualche citazione o memoria storica soltanto quando è stata sfiorato o ha partecipato, per una ragione o per l’altra, a un processo di ben altre dimensioni. Altrimenti, raramente si conservano e si tramandano ai posteri i documenti “scritti”, attraverso i quali diventa possibile interpretare, almeno nelle sue linee essenziali, un quadro storico attendibile.

Non sempre possiamo addebitare questa incuria al disinteresse o al disamore per il passato del proprio luogo natìo. Il più delle volte è accaduto che tale incuria sia dovuta a ciò che si definisce mancanza di “senso storico”. Appare evidente che senza profondi mutamenti, tali da provocare degli scarti tra il presente e il passato, è difficile avvertire i passaggi epocali della propria storia, senza i quali, nella coscienza di una piccola comunità, non si può formare nessun il senso storico.

Con ciò non voglio dire che in questi piccoli paesi non ci fossero dei sostanziali cambiamenti, ma soltanto che essi erano talmente lenti e quasi impercettibili da non suscitare, in chi li viveva, il bisogno di registrarli e di tramandarli ai posteri.

Ecco perché l’unico avvenimento degno che i nostri antenati hanno considerato di essere tramandato oralmente è, in generale, legato alla propria fondazione, forse perché, come sospettava lo storico francese Lucien Febvre, sono proprio «i periodi delle origini che attraggono lo storico», in quanto «vi pullulano misteri da chiarire, resurrezioni da tentare»

Ma, purtroppo, le scarse e lacunose notizie tramandateci dalla tradizione orale restano avvolte da una coltre leggendaria, che impedisce allo sguardo dello storico di chiarire quale nucleo di verità essa sottende. La leggenda a cui, oltre alla tradizione orale, si richiama anche uno stemma dipinto su un polittico cinquecentesco – che oggi è riconosciuto come lo Stemma ufficiale del Comune – e che sin da bambino ha attirato la mia curiosità, si riferisce proprio al momento della fondazione di Saracena. Si narra, infatti, che il nostro paese abbia preso il nome da una Donna Saracina che, a capo di un manipolo di saraceni, aveva occupato quel sito, e che sorpresa nel cuore della notte dall’arrivo dell’esercito bizantino, abbia dapprima tentato una difesa e che poi sia stata uccisa non senza mettere in salvo una parte della popolazione. I pochi superstiti hanno costruito il paese nel luogo in cui lo vediamo adesso e in memoria della eroica resistenza della donna lo hanno chiamato “La Saracina”.

Non v’è dubbio che anche a una superficiale analisi dei fatti una tale “storiella”, variata in diversi modi, non sia sostenibile, tanto da far dire a qualcuno che si tratti di una storia partorita dall’immaginazione secentesca degli eruditi del tempo.

Sta di fatto che per arrivare a una verosimile soluzione occorre abbandonare gli strumenti e i metodi “classici” della storiografia. Conviene abbracciare i metodi e gli strumenti dell’antropologia culturale. Trattare, in sostanza, la leggenda come fosse un “mito” delle origini, decifrarla liberandola da tutte le incrostazioni che l’immaginario popolare l’ha nei secoli ammantata.

Come in tutte le culture, in cui prevale l’oralità sulla scrittura, la memoria condivisa viene affidata alle leggende e ai miti, che, agli occhi di chi è estraneo o lontano da quella cultura, si presentano come una sorta di geroglifici, di cui si è persa completamente la chiave di lettura, poiché la trama del mito, e per taluni aspetti della leggenda, è stata trasfigurata e mistificata a tal punto da rendere i fatti realmente accaduti del tutto irriconoscibili.

Questo accade perché ogni mito, come ha insegnato René Girard, documenta una violenza collettiva, cioè i miti sono “testi di persecuzione collettiva”. Le persecuzioni non lasciano tracce nei documenti scritti, ma si sedimentano in una memoria collettiva che, trasfigurata di generazione in generazione, subisce una serie di sostanziali spostamenti sino a convertirsi addirittura nel suo contrario, rimuovendo così il senso di colpa che le ha originate: «Il trasgressore si trasforma in restauratore e persino in fondatore dell’ordine che egli ha trasgredito in un certo senso in anticipo. Il supremo delinquente si trasforma in pilastro dell’ordine sociale»

Ora ciò che meglio fa risaltare l’effetto della leggenda è propria la quasi totale assenza di documenti scritti. Questa mancanza provoca questo effetto perché la scarsità di documenti scritti rende quasi inevitabile la scelta dello storico di concentrare tutti gli sforzi delle sue ricerche soprattutto sul problema delle origini. Ed è propria la mancanza di questi documenti scritti, a volte parziale altre volte quasi totale, a rendere difficile il compito dello storico di scrivere una storia interpretativa, perché non si ha modo di controllare la veridicità delle scarse e frammentarie notizie che ci sono state tramandate oralmente.

Tuttavia, per quanto “misera” e “insignificante” appare la storia di un piccolo centro agli occhi degli storici di professione, anche questa storia minuta può rivelarci dei lati sorprendenti, perché ci costringe a riflettere non solo sul significato da attribuire al valore delle ricostruzioni storiche, ma anche a prendere coscienza del fatto che, quando si vuole operare una ricostruzione storica di uno di questi piccoli e “insignificanti” centri abitati, occorre elaborare un approccio storiografico “altro” rispetto a quello usato per le realtà macrostoriche.

Il mio approccio storiografico non è di tipo interpretativo, valido per quelle realtà ricche di documenti, bensì di tipo congetturale, cioè la ricostruzione dei fatti, basandosi su scarsi e labili appigli documentali, rimane per costituzione “ipotetica”. posso, a grandi linee, immaginare come i “fatti” si siano verosimilmente svolti, senza avere perciò la presunzione di acclararli come certi e inconfutabili.

Questa ricostruzione congetturale si potrebbe basare sull’assunto: “fino a prova contraria”, nel senso che la ricostruzione è attendibile e plausibile sino al momento in cui non spunti qualcosa che possa correggerla o confutarla in parte o in toto. In più aggiungo che, sino allo stato attuale, alla mia ricostruzione congetturale non si può che contrapporre un’altra ricostruzione congetturale, basata magari su altri elementi, magari con un quadro storico più valido e attendibile, ma non è possibile uscire dall’approccio congetturale fino a quando non verranno in luce una miriade di ulteriori fonti inconfutabili scritte e non scritte. Solo in tal caso sarebbe possibile passare a una storia interpretativa. Inoltre, immaginare “come i fatti si sono verosimilmente svolti” non vuol dire affatto inventarli di sana pianta, ma soltanto svilupparli secondo una loro coerenza interna, mettendoli costantemente a confronto con i pochi dati certi che la cronachistica ci ha messi a disposizione.

È proprio la scarsità delle fonti che ci induce a scrivere una storia congetturale anziché interpretativa, diversa rispetto a quella che solitamente siamo abituati a leggere e a studiare sui banchi di scuola. Per citare ancora Febvre, “la storia si fa, senza dubbio, con documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si può fare senza documenti scritti, se non ne esistono. Per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare... Quindi, con parole. Con segni. Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive. Con eclissi lunari e con i collari da tiro”, e, a tutto questo, potrei aggiungere: con i nomi toponomastici, con le strade, con i nomi delle contrade, delle famiglie, ecc.; poiché ogni nome conserva una traccia del nostro passato. Tutte le invasioni che si sono succedute nel corso dei secoli hanno lasciato una traccia del loro passaggio, non solo nei costumi e nelle usanze, ma anche negli oggetti di uso comune, nelle relazioni familiari, nei nomi delle famiglie, nei toponimi, ecc.

Riguardare la propria storia da questo punto di vista significa, a mio parere, mostrare un amore autentico per tutto ciò che appartiene al proprio vissuto. Come scrive il Nietzsche della seconda Considerazioni Inattuali, Sull’utilità e il danno della storia per la vita: «La storia della sua città diviene per lui la storia di se stesso; comprende le mura, la porta con le torri, l’ordinanza comunale, la festa popolare come un diario figurato della sua gioventù, trovando in tutto questo, se stesso, la sua forza e la sua operosità, il suo piacere, il suo giudizio, la sua follia e modi sgarbati».

Confesso, in effetti, che nei momenti di sconforto, quando la ricerca e lo studio perdono il loro senso perché tutto mi sembra che un giorno sia destinato a precipitare nel nulla e nel silenzio, è al mio paese e alla sua storia senza “meriti” che la mia mente corre, quasi che, risalendo indietro nella corrente del tempo remoto sino a sfiorare le radici o le mie origini, possa di nuovo avvertire nelle vene scorrere quella preziosa linfa vitale che dia forza e vigore alla mia vita di studioso “inattuale”.
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