Saragei Antonini EGREGIO SIGNOR TANTO, CFR 2013
Al signor Tanto, un personaggio che dà il titolo questa raccolta, è indirizzata una lettera in cui si dice che questo signor Tanto è andato a vivere, finalmente, in una stanza al buio. Forse egli è un musicista che ha perduto l’udito, qualcuno che si è ammalato nel corpo, non lo sappiamo. La lettera sintetizza, infatti, lo stile surreale di questa scrittura e ci aiuta, però, ma lo capiamo ad ogni angolo di pagina, a delimitare l’immaginario poetico di Saragei Antonini; dico “delimitare” proprio perchè è una scrittura che utilizza il campo semantico della casa – oggetti, situazioni, persone in ombra – preoccupandosi spesso di scongiurare qualcosa che potrebbe avere il nome di perdita, di irruzione.
Il libro sembra quindi passeggiare tra cose e microstorie reinventandole con l’occhio sognante di un’Alice che tuttavia non ha mai abbandonato la sua stanza e non si è avventurata nel regno periglioso del bianconiglio e della regina di cuori.
O forse è un’Alice che è tornata dal viaggio, che ha preso ciò che era necessario prendere e invece di perdere l’infanzia ne ha trasferito lo sguardo alla vita, per non permettere alle cose di morire.
Così, vedere, sembra essere operazione da svolgere inforcando occhiali da fanciullo, per inventare finali e forme, per proteggere la casa e i suoi abitanti, mentre le cose sono, stanno accadendo veramente.
Perchè c’è Una di cui non si può dire, che non si può addolcire del tutto. È Una che non può avere casa perché “non ha tempo per andare a casa”, anche se ha tanti che si occupano di lei, e “tante e tante (sono le ) storie da raccontarle”.
Come si vede, sono parole che la voce di questo libro rivolge a un tu, e amo immaginare che questo tu sia un bambino piccolo al quale bisogna presentare la Signora con le parole delle favole, con lo scongiuro che essa possa viaggiare lontano e non avere il tempo di entrare in una casa.
Ma questo tu è anche l’altro, il tu senza cui non ci può essere poesia, perché il monologo è solo del signor Tanto che si è chiuso in una stanza buia, mentre la poesia, per essere tale, ha bisogno di essere rivolta, “vorrei spezzare una poesia per te”.
Qui, a volte, la poesia è voluta cantilena, filastrocca, come un gioco che non c’impegni molto, una festa da tenere sempre viva per la sopravvivenza, perché tutte le candele della casa rimangano accese per il gioco, per noi stessi che una volta siamo stati bambini e ci vergogniamo di dirlo.
Sebastiano Aglieco
Il libro sembra quindi passeggiare tra cose e microstorie reinventandole con l’occhio sognante di un’Alice che tuttavia non ha mai abbandonato la sua stanza e non si è avventurata nel regno periglioso del bianconiglio e della regina di cuori.
O forse è un’Alice che è tornata dal viaggio, che ha preso ciò che era necessario prendere e invece di perdere l’infanzia ne ha trasferito lo sguardo alla vita, per non permettere alle cose di morire.
Così, vedere, sembra essere operazione da svolgere inforcando occhiali da fanciullo, per inventare finali e forme, per proteggere la casa e i suoi abitanti, mentre le cose sono, stanno accadendo veramente.
Perchè c’è Una di cui non si può dire, che non si può addolcire del tutto. È Una che non può avere casa perché “non ha tempo per andare a casa”, anche se ha tanti che si occupano di lei, e “tante e tante (sono le ) storie da raccontarle”.
Come si vede, sono parole che la voce di questo libro rivolge a un tu, e amo immaginare che questo tu sia un bambino piccolo al quale bisogna presentare la Signora con le parole delle favole, con lo scongiuro che essa possa viaggiare lontano e non avere il tempo di entrare in una casa.
Ma questo tu è anche l’altro, il tu senza cui non ci può essere poesia, perché il monologo è solo del signor Tanto che si è chiuso in una stanza buia, mentre la poesia, per essere tale, ha bisogno di essere rivolta, “vorrei spezzare una poesia per te”.
Qui, a volte, la poesia è voluta cantilena, filastrocca, come un gioco che non c’impegni molto, una festa da tenere sempre viva per la sopravvivenza, perché tutte le candele della casa rimangano accese per il gioco, per noi stessi che una volta siamo stati bambini e ci vergogniamo di dirlo.
Sebastiano Aglieco