Trovavo in questi luoghi una variopinta rappresentanza del genere umano, per lo più dolente, che allora abitava la nostra bella Isola. Alle Poste in particolare si trovavano i più incazzati: sembravano pronti a far crollare il governo in carica a colpi di cannone (o magari di roncola); io dentro di me, ingenuamente, pensavo: ” alle prossime elezioni politiche i democristiani (allora i nemici dei giovani idealisti e dei sognatori del cambiamento erano soprattutto i “matusa” della Democrazia Cristiana) prenderanno un tale calcio nel sedere che ci saremo finalmente liberati di loro, della loro protervia, della loro incapacità e del malaffare che si portano dietro”.
Così pensando attendevo trepidante il risultato delle elezioni; regolarmente le vincevano i democristiani; così il cambiamento agognato restava fuori dalla porta.
Non riuscivo però a farmene una ragione: “Ma come?”, mi chiedevo tra l’indignazione e l’incredulità; li ho sentiti io con le mie orecchie e li ho visti io trattati a pesci in faccia dall’impiegato della Camera di Commercio o dal nevrotico impiegato delle Poste (ce n’è sempre uno, anche oggi, pronto a scaricare le sue frustrazioni sulla ignara e indifesa utenza); ho sopportato insieme a loro delle file estenuanti, inspiegabili, inammissibili, inconcepibili in un Paese che voglia dirsi civile e solidale.
Ma allora perchè continuano a votare i responsabili delle disfunzioni nel funzionamento dei pubblici uffici e del malaffare dilagante?
Così diventai sardista. In nome della nostra specialità e della costante resistenziale sarda vidi nel sardismo una via d’uscita ai mali della Sardegna. La mia fede cominciò però a traballare quando acchiapparono con le mani nel sacco i primi sardisti artefici in negativo della stagione di tangentopoli in salsa quattro mori; ma forse avrei dovuto aprire gli occhi molto tempo prima; quando ad esempio, in previsione di un’assemblea condominiale discorrevo con gli amici che avrebbero dovuto e potuto sostituire i loro genitori, proprio come me, nell’assemblea nella quale si doveva discutere e approvare il bilancio consuntivo; prima della riunione questi amici berciavano contro l’amministratore condominiale di turno (all’epoca erano tutti dei dilettanti, condomini anche essi, divisi tra il desiderio di rendersi utili e l’improvvisazione tipica dei dilettanti), accusandolo delle peggiori nefandezze, di ammanchi di cassa, di ruberie, malversazioni e appropriazioni indebite; ma quando scattava l’ora X della riunione scoprivano di avere degli impegni improrogabili ed io mi ritrovavo solo in Assemblea a combattere contro i mulini a vento; e ancora prima, quando studente delle scuole superiori, mi attivavo per organizzare le assemblee studentesche di migliaia di iscritti; ma a dibattere i problemi della scuola ci ritrovavamo in un centinaio scarso; e se c’era da distribuire volantini in ciclostile o da sfilare in corteo con il megafono, di quei mille e di quei cento ne scorgevo, voltandomi a guardare, appena quindici (per abbondare).
Adesso quando sento parlare o leggo di Sardegna libera dal giogo degli Italiani, penso che i primi, veri Italiani siamo noi Sardi: coraggiosi, fieri, orgogliosi ma inguaribilmente italiani nella nostra indolenza, nella nostra rassegnazione, nella nostra incapacità di muoverci insieme; individualisti fino al midollo; bravi a lamentarci e piangerci addosso ma pronti a rientrare nell’ombra nel momento dell’assunzione di responsabilità.
Colpa dei Savoia o dei Borbone? Colpa dei romani e delle loro legioni? Colpa dei bizantini, dei pisani, dei catalani o dei castigliani?
Non saprei rispondere. Forse anche per noi vale vale l’antico adagio meridionale “Francia o Spagna, purchè si magna!”
Mi resta il vanto di essere discendente di quei grandi uomini che innalzarono al cielo quei mastodontici edifici che dopo migliaia di anni resistono ancora alle ingiurie del tempo, ma non posso fare a meno di constatare che il patrimonio genetico di quei grandi si è disperso, mischiandosi a quello dei diversi dominatori che nei millenni si sono succeduti nel dominio dell’Isola.
Ma non provo antipatia per chi ancora crede che valga la pena di parlare e di lottare per una Sardegna libera.
Anche io, un tempo lontano, ci ho creduto.