Spesso viene voglia di leggere un grande classico e farsene un’idea propria, constatare se effettivamente quello che è passato alla storia come un grande libro continua ad esserlo anche oggi. Ho voluto “testare” il grande Jean-Paul Sartre (Parigi 1905-1980) e il suo La nausea (La nausée, 1938), avendone in casa una copia edita da Einaudi con la traduzione di Bruno Fonzi. Protagonista del romanzo è Antonio Roquentin, viaggiatore che decide di stabilirsi a Bouville, cittadina francese, in un albergo vicino la stazione. Roquentin conduce una vita molto solitaria, non ha amici, frequenta spesso la biblioteca municipale per portare a termine le sue ricerche sul marchese di Rollebon, personaggio storico del XVIII sec. In biblioteca conosce un non meglio definito Autodidatta, un umanista che studia autonomamente tutti i libri lì presenti, in ordine alfabetico. La nausea ha la forma di un diario, e chi legge è portato, o per meglio dire “costretto”, ad entrare nell’intimità, nella Weltanschauung del protagonista. Roquentin non ha neanche una vita sentimentale: aveva una donna, Anny, ma da quattro anni non ha più sue notizie; ha rapporti occasionali con la padrona del bistrot che frequenta abitualmente la sera, il “Ritrovo dei Ferrovieri”. In questo luogo, da buon solitario, ha l’opportunità di osservare scrupolosamente gli altri clienti, di riflettere sulle sue “Avventure” di viaggio, di pensare al suo oggetto di studio, Rollebon. Più riflette su sé e su ciò che lo circonda e più avverte una sensazione sgradevole, simile alla nausea. Si attacca sempre più al marchese di Rollebon, credendo che questo personaggio ormai defunto nasconda una verità che potrà aiutarlo nella sua vita, ed essergli d’esempio. Al “Ritrovo dei Ferrovieri” ha anche la possibilità di ascoltare una canzone che gli dà molto sollievo; si tratta di un motivo jazz, Some of These Days di Ella Fitzgerald. La sensazione sgradevole, tuttavia, non lo abbandona, così decide di visitare il Museo di Bouville. Guarda attentamente soltanto i quadri – le “ceramiche” non lo affascinano -, ritratti dei grandi uomini della città. Al ritorno dal museo, si convince di non poter più scrivere del marchese di Rollebon: un morto non avrebbe potuto dare un senso alla sua esistenza. Decide di lasciarlo morire, pone fine alla sua tesi storica. Non è possibile negare che le 17 pagine in cui l’azione si svolge al museo sono veramente sfiancanti da leggere; al personaggio sale sempre più la nausea, ma ai lettori sicuramente una noia terribile. Ma il libro, a questo punto, è soltanto a metà. Seguono pagine frenetiche: Roquentin esce di casa, proseguono le riflessioni sull’esistenza, sul tempo che scorre, sul mondo che lo circonda. Il fraseggio diviene sempre più insostenibile, concitato, i pensieri del personaggio sono riportati così come la sua mente li crea: senza connessioni sintattiche. Le sue considerazioni personali si alternano a descrizioni di paesaggio connotate negativamente, riporta in maniera ossessiva una notizia di cronaca: una bambina violata e uccisa. Ho dovuto chiudere il libro, stavo malissimo: non l’ho più toccato per giorni e giorni, forse settimane.
Sartre è riuscito in modo magistrale a trasmettere quello che provava, attraverso il puro mezzo linguistico. Non è possibile leggere quelle pagine di “pura follia” senza provare la Nausea. Il resto del libro si legge con grande velocità: l’Autodidatta invita a cena il riluttante Antonio Roquentin, al quale racconta la sua Verità, il suo senso della vita. L’Autodidatta ama la gioventù, l’umanità nella sua interezza, si è iscritto alla S.F.I.O. (Sezione Francese dell’Internazionale Operaia): ha trovato la felicità nel socialismo, ma non riesce a convincere il suo ospite. Anny si fa viva, vuole rivedere il suo antico amante. Roquentin è molto lieto della notizia perché in fondo non aveva mai smesso di amarla, ma l’incontro si rivela deludente: Anny è molto cambiata, è ingrassata, anche lei ha vissuto la sua nausea, rinunciando per sempre alla ricerca dei “momenti perfetti”, non vuole tornare con Antonio, lo scopo dell’incontro era vedere se almeno lui fosse rimasto uguale. Il protagonista piomba nuovamente nella propria solitudine: Anny si è abbrutita, il signor di Rollebon è morto, le sue “Avventure” di viaggio si sono trasformate in mere “storie”. Neanche il paesaggio e gli abitanti di Bouville hanno un aspetto confortante: Roquentin si perde in una lunga considerazione sulle brutture della natura e delle persone che la abitano ignare (i salauds, i borghesi «porcaccioni»). Considerazione che si conclude con delle predizioni catastrofiche, orribili mutazioni kafkiane. Vorrebbe dirle a qualcuno, ma sa già che non troverà, negli altri, nessuna “Cassandra” disposta all’ascolto. Decide di andar via da Bouville. A poche ore dalla partenza pensa di fare un’ultima visita alla biblioteca, per restituire i libri in prestito. Incontra l’Autodidatta, ma non ha occasione di salutarlo perché, proprio in quella circostanza, viene coinvolto in uno scandalo sessuale legato alle sue malsane attenzioni dirette agli scolari che frequentavano la biblioteca. Roquentin, si accorge del clima spiacevole tra gli astanti, vorrebbe avvisarlo di ciò che sta succedendo intorno, ma non riesce a salvarlo dalla furia dei presenti in biblioteca. L’Autodidatta, ferito nel corpo e nell’animo, scompare nella scura sera di Bouville, vittima del suo esasperato socialismo. Ad Antonio Roquentin non resta altro che aspettare il suo treno al “Ritrovo dei Ferrovieri” e andare via. Ascolta un paio di volte Some of These Days e tutto sembra cambiare: avanza la possibilità di creare qualcosa di significante, significante nel modo in cui egli avverte quella canzone; forse un libro, qualcosa «bella e dura come l’acciaio, e che facesse vergognare le persone della propria esistenza». Sartre conclude così, con un messaggio di speranza, La nausea. Mai titolo fu così indovinato (e pensare che Sartre avrebbe voluto intitolare il suo libro Melancholia o Le avventure straordinarie d’Antoine Roquentin, mentre il titolo attuale si deve a Gaston Gallimard): la stessa lettura provoca nel fruitore tutte le sensazioni della nausea e anche le sue conseguenze (da un punto di vista psicologico). Lo si potrebbe dividere in tre parti: una prima parte noiosa e stancante, eccessivamente descrittiva, senza riferimenti per il lettore: predispone al fastidio interiore; una seconda parte, corrispondente alla metà del libro, ma più breve, che, a causa della concitazione e dei pensieri cupi e mostruosi, provoca nel lettore un senso di nausea fisico; una terza parte, finale, che è un crescendo di conati di malessere, ma che si conclude nelle ultime pagine con riflessioni propositive, liberatorie, che trovano in quell’accenno di speranza del finale la giusta catarsi. Non voglio parlare del discorso filosofico che sta dietro al libro (il «per-sé» e l’«in-sé»), né dell’Esistenzialismo, né della ferrea coerenza e autonomia di pensiero che ha caratterizzato la vita di Jean-Paul Sartre: basterà ricordare che La nausea, in quanto classico, ha superato il test a cui ho voluto sottoporlo. Specialmente se raffrontato alla contingenza italiana di questi anni, è ancora attualissimo, ma solo per stomaci forti!