Basta guardare i giornali per capire che l’industria dei paesi ricchi è in crisi di sovrapproduzione da alcuni decenni. C’è grande difficoltà nella vendita dei beni tradizionali (non dei beni più recenti), come automobili e altri veicoli, elettrodomestici, case, beni alimentari, articoli tessili e di abbigliamento, articoli sanitari; ma anche nella vendita di libri, film, spettacoli, informazione attraverso i canali tradizionali (giornali, radio, TV), ecc.
Naturalmente la domanda di questi beni è satura non perché non li compriamo, ma perché se ne producono molti di più di quanti se ne consumino. Negli ultimi decenni la produttività generale è aumentata ad un ritmo talmente accelerato che la produzione tende costantemente ad eccedere la domanda.
Anche la domanda è aumentata di molto. Nei decenni passati si è estesa alle classi che usavano ancora poco gli elettrodomestici, non acquistavano case, non seguivano la moda, ecc. E anche i ceti che già praticavano questi consumi, li hanno accresciuti. Il consumo di questo tipo di beni, insieme con la scuola e la sanità, permisero il rilancio dell’economia dopo la guerra, creando il lungo periodo di sviluppo del welfare state.
Ma quel ciclo è finito da più di trent’anni. I prodromi della crisi attuale risalgono agli anni Ottanta, quando si formò un divario crescente tra capacità produttiva e capacità di consumo. La prima aumentava più velocemente della seconda. Era la saturazione, ma nessuno ci badò veramente.
Naturalmente ci sono altri beni, non tradizionali, che sono ancora in grande espansione e che creano nuovi posti di lavoro (elettronica, informatica, nanotecnologie, biotecnologie, robotica, ecc.). Ma il lavoro distrutto dall’aumento di produttività e dalle stesse nuove tecnologie è molto maggiore del lavoro nuovo creato.
È incredibile che la crisi attuale sia considerata da molti esperti come un semplice momento del ciclo economico; in base alla cui logica prima o poi la ripresa deve arrivare. In realtà non è affatto detto che arrivi se non ci saranno radicali trasformazioni nel tipo di beni prodotti. Non basta auspicare un maggior progresso tecnico – come credono in molti – per uscire dalla crisi. Anzi, se la causa prima della crisi è la tendenza alla saturazione, il progresso tecnico, a cui si deve l’aumento di produttività, peggiora la crisi perché accresce la disoccupazione.
Naturalmente il progresso tecnico e produttivo non si può fermare, e guai a tentare di farlo. Ma dobbiamo sapere che esso consiste nella sostituzione di lavoro umano con lavoro meccanico. Questo, da sempre. Tuttavia finora il lavoro reso superfluo veniva riassorbito, anzi esteso, grazie al fatto che l’aumento di produttività generava profitti maggiori, e ciò permetteva maggiori investimenti.[1] Oggi questo non avviene più. Infatti se gli investimenti aumentano sempre negli stessi settori, la domanda si satura, gli investimenti calano e l’occupazione inizia a scendere.
Per questo è necessario suscitare la domanda di nuovi beni. È velleitario affidarsi alla gran massa di incentivi di ogni genere – vecchi e nuovi – che i governi escogitano. E altrettanto ingenuo è credere, come fanno tanti, che l’aumento della concorrenza basti da solo a superare la crisi. Se non c’è nuova domanda, non c’è incentivo o concorrenza che tengano.
Lo ripetiamo: la saturazione riguarda i beni tradizionali (quelli indicati prima), non tutti i beni, come credono i critici del “consumismo”. Ci sono tanti bisogni nuovi insoddisfatti, che l’attuale struttura del mercato, fondata sul consumo di beni privati, non fa emergere o esprime con difficoltà. Ad esempio, sono bisogni largamente insoddisfatti i trasporti efficienti, scuole migliori, verde pubblico, il risanamento idro-geologico del territorio, il restauro dei beni artistici; i servizi alla persona per le categorie deboli, ricerca e istruzione superiore, turismo interno, l’educazione civica (oggi terribilmente carente), il disinquinamento dell’ambiente, le fonti di energia non inquinanti.
Si tratta di bisogni spesso impellenti e che offrono possibilità enormi di investimento. Ma spesso i privati non hanno la forza di intervenire senza un sostegno pubblico. Questo, o perché l’investimento è troppo grande, o perché il suo rendimento arriva solo nel lungo periodo, o infine perché (come per i servizi alla persona) la logica del profitto non è adatta a dare un buon servizio e ci vuole l’intervento del lavoro non-profit.
Tuttavia l’intervento pubblico non deve consistere sempre nel finanziare in qualche modo questi investimenti. Spesso basta un intervento normativo o regolativo (che però è indispensabile); oppure basta che le istituzioni siano garanti di ultima istanza presso i sottoscrittori di azioni dedicate a singoli progetti.
Per quanto riguarda gli impegni propriamente finanziari dello Stato, il denaro dovrebbe derivare, almeno in parte, dall’abolizione delle enormi spese attuali per incentivi, facilitazioni e cassa integrazione a imprese non più produttive; oltre che, naturalmente, da una lotta vera all’evasione fiscale (una cosa che aspettiamo ancora di vedere).
[1] Purtroppo i nuovi posti di lavoro quasi mai vengono occupati dagli stessi lavoratori che perdono il lavoro a causa del progresso tecnico. Alla fine lo riconobbe lo stesso Ricardo (Principles of Political Economy, 1821, cap. XXXI).
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