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Non potrei immaginare un'opera più liminale di Saul Fia, perché l'esordio di László Nemes è un incubo ai limiti dello sguardo, un tour de force infernale che lavora sempre intorno ai confini dell'immagine, al rapporto tra campo e fuoricampo, al cortocircuito stesso della morale. La camera, incollata alla schiena del protagonista, non lo lascia nemmeno per un secondo, concentrando difatti il fuoco quasi unicamente sulla sua figura. Il teleobiettivo aderisce a un punto di vista selezionato, pulsante e forsennato, deformando - amplificando - tutto ciò che lo circonda. Gli orrori del campo di concentramento sono in gran parte fuori fuoco, ma è proprio questa loro zona di confine a renderli autenticamente protagonisti. Nemes, lavorando di sottrazione visiva, amplifica inevitabilmente l'effetto del fuoricampo, facendone un polo attrattivo, una calamita impossibile da evitare, una traccia visivo-sonora potenziata proprio perché decentrata.
Ecco dunque che un film sull'olocausto si trasforma in un'indagine circa la visione, l'orientamento scopico, il fuoco percettivo e la ricerca disperata di un punto di fuga (o di una stasi).
Nemes lavora continuamente su uno scarto, quello tra visibile e non-visibile: ne deriva un cinema puramente esperienziale, iperpercettivo, che si dispiega in una sorta di crudelissima fenomenologia dell'oscenità. Nel fare questo sceglie il punto di vista di un uomo in bilico tra follia e anaffettività, che vive nella claustrofobia, dilaniato dalla costante mancanza d'ossigeno e dall'inevitabile azzeramento di qualsiasi memoria (la sequenza con la donna che lo chiama per nome è uno dei momenti più strazianti del film). Sarà proprio lui il soggetto di un percorso espiativo assolutamente anomalo, egoistico, perfino insensato: riuscire a seppellire un figlio morto (che non è necessariamente "il figlio" come tutto nel film sta ad indicare). Un'impresa folle che si traduce nel più estremo, ingiustificabile atto d'umanità. Salvare un morto prima ancora di salvare un vivo. E' proprio all'interno di questo meccanismo che il film alimenta la sua potenza, iscrivendosi in piani-sequenza asfittici dove ciò che manca è sempre il cielo. E poi, negli abissi della morale, la macchina a mano si fa sempre più concitata, l'immagine sembra esplodere fino a fermarsi - finalmente - in un finale "impossibile", dove la macchina lascia finalmente andare il suo nuovo bambino, senza seguirlo. Quel bambino che - guarda caso - sembra proprio "resuscitato" dall'abisso.
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