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Partiamo dal festante finale al tip tap di Zatōichi con cui Kitano Takeshidisorienta e gioca uno scherzaccio al suo pubblico di affezionati eaggiungiamoci gli ultimi minuti di puro delirio di Symbol. Bisogna per forza partire da qui se si vuole affrontareun'opera come questa, ultimo lavoro di Matsumoto Hitoshi, comico che inGiappone gode di popolarità stellare (in coppia con Hamasa Masatoshi forma daanni il duo Downtown) e che da un po' di anni a questa parte ha cominciato acimentarsi nell'arte cinematografica, sua passione fin da bambino. Dopol'incredibile Symbol sembrava che piùniente potesse aggredire la mente serena dello spettatore, ma Matsumoto riescea sorprendere ancora, con un lavoro che ripensa e rivisita il genere jidaigeki e il personaggio del ronin con figlio/a attraverso la lentedeformante della sua sensibilità comica, eccessiva e spiazzante. La storia inizia con un vecchio ex-samurai, interpretatodall'attore dilettante Nomi Takaaki, e sua figlia che vagano per il Giappone,un bellissimo territorio rurale e quasi bucolico fotografato con grande toccoda Kondō Ryūto, già direttore della fotografia per due film di KumakiriKazuyoshi, Nonko 36 sai (kaji tetsudai) (Nonko 36-sai) e Kaitanshi jokei (Sketches of Kaitan City). Nelle prime scene, praticamentesenza alcun dialogo, vediamo il samurai sempre in fuga con fare codardo venireaggredito e ferito, in scene tanto comiche quanto deliranti, da tre assassini,macchiette comiche che ben ci introducono nell'atmosfera surreale del film. Saràla piccola figlia Tae a curarlo ogni volta con un impasto di erbe di montagna.Ma ciò non basterà a salvarlo dagliscagnozzi di un signore locale, in cerca di qualcuno capace di far sorrideresua figlia ormai ridotta al mutismo dallo shock della morte della madre. La scomparsa della madre è uno dei fili conduttori dell'opera, un dramma che ha colpito anche ilsamurai e la bambina. Da quando la moglie è morta, si è infatti lasciato andarein una sorta di apatia senza desideri che sembra potersi concludere solo con lamorte ed è forse ciò che segretamente cerca. Se non sarà in grado di far riderela piccola principessina entro i trenta giorni concessi, sarà costretto acommettere seppuku. Comincia così unaparte surreale e comica fino all'eccesso in cui il derelitto samurai le provatutte per salvarsi la vita. Viene fuori qui tutto il repertorio, anche allimite del buon gusto, del Matsumoto comico di Osaka e la mimica di Nomi che èquasi keatoniana. Anche se il personaggio ha qualche similitudine con quelloche avevamo visto in Symbol, qui è piùprofondo e umano, l'espressione carica di tristezza ed immutabile,l'esposizione della sua fisicità che lo mette spesso in ridicolo e la quasiassenza di parola, sono un'esplicitazione fisica di quello che è il suo drammainteriore, quello di essere cioè un perdente, soprattutto agli occhi dellafiglia che spesso lo rimprovera. Tutto ciò riesce a tratteggiare, fra unarisata e l'altra, un eroe umano-troppo-umano che solo nello splendido finaleriuscirà a riscattarsi. Siamo qui in presenza forse dell'opera migliore di Matsumoto e oltrealla già citata ottima fotografia, troviamo scene surreali stilizzate almassimo grado che ci mostrano il talento comico e registico del nostro che e'anche bravo a posizionare la macchina da presa. L'unica parte debole è forsequella centrale, dove la divertente successione di siparietti comici fatti perfar ridere la principessa, alla lunga tende a ripetersi e a far perdere il ritmo.Ma glielo si può concedere perché la storia, l'idea di fondo che muove il film,il rapporto cioè fra padre e bambina che si esplica e sublima soprattutto neidieci minuti finali, sono da applausi. Si ride, si piange nel sangue e i centododiciminuti del film sono già terminati. Eppure ne vorremmo ancora di questa sublimee comica follia purificatrice. 「Matteo Boscarol」
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