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Sayōnara keikoku (さよなら渓谷, The Ravine of Good-bye). Regia e sceneggiatura: Ohmori Tatsushi. Soggetto: dall’omonimo romanzo di Yoshida Shūichi. Fotografia: Ohtsuka Ryō. Scenografia: Kurokawa Michitoshi. Montaggio: Hayami Ryō. Musica: Hiramoto Masahiro. Interpreti e personaggi: Onishi Shima (Ozaki Shunsuke), Maki Yoko (Kanako), Ōmori Nao (Watanabe), Anne Suzuki. Produzione: Morishige Akira per Stardust Pictures / Studio Three Co. Durata: 116’. Prima proiezione in Giappone: 22 giugno 2013.
Partecipazione a festival: Moscow International Film Festival, Japan Cuts (Usa), Vancouver International Film Festival, BFI London Film Festival, International Film Festival of India. Links: Sito ufficiale (in giapponese con trailer - Mark Schilling (The Japan Times - con trailer)Punteggio ★★★1/2
Proviamo a mettere l’una dopo l’altra le principali linee narrative di Sayonara keikoku. Uno stupro di gruppo all’interno di un campus universitario, avvenuto molti anni fa. La vita senza pace della vittima (Kaneko), il cui passato riaffiora inesorabilmente provocando violenze domestiche, aborti e tentati suicidi. Uno degli stupratori (Ozaki) che molti anni dopo rivede la sua vittima e, logorato dal senso di colpa, fa di tutto per aiutarla e farsi perdonare. I due che diventano amanti. Una loro vicina di casa è accusata dell’omicidio del proprio figlio. L’ex-stupratore è ritenuto dalla polizia l’amante della presunta assassina e il suo possibile complice. Un giornalista (Watanabe) raccoglie notizie sul caso mentre la sua vita coniugale è sulla soglia del disastro.
Ci sarebbe – e a ragione – da temere di trovarsi di fronte a un film pulp o a una truculenta soap opera. Ma dietro questa storia si celano due firme importanti del contemporaneo panorama culturale giapponese: quelle dello scrittore Yoshida Shūichi (dalle cui opere sono stati tratti altri film di prestigio come Villain e A Story of Yonosuke) e quella del regista Ohmori Tatsushi (The Whisperings of the Gods, Tada’s Do-It-All House e Bozo). Evitando le derive del sensazionalismo, Ohmori usa questi diversi materiali per costruire una storia di notevole profondità psicologica, che senza voler dare facili spiegazioni, e ponendo più domande che risposte, indaga nei meandri dell’animo umano e dei suoi limiti.
Il rapporto fra il carnefice pentito e la sua vittima è trattato senza sconti, con le necessarie franchezza e crudeltà. Il perdono di Kaneko ha una forza pari a quella della sua necessità di vendicarsi (vedi la telefonata alla polizia in cui denuncia il suo uomo) e il rapporto che instaura con Ozaki, lo stupratore, sembra a tratti l’unica sua concreta possibilità di esistenza: o almeno quella che sola non la costringe a nascondere a chicchessia la sua passata tragedia. Sintomatica è la scena iniziale del film, con la donna che chiede esplicitamente all’uomo di “scopare” ad indicare una sorta di tentativo di ribaltamento di ruoli rispetto al passato. Come se ora fosse lei a poter decidere e non semplicemente a dover subire. Così come il fatto che i due facciano con passione e accanimento l’amore mentre dalla Tv accesa si ascoltano le news riguardanti l’arresto della vicina di casa, sembra alludere a un loro desiderio di fuga da una realtà crudele che ha provocato in essi solo dolore (desiderio che il film decisamente vanificherà).
L’evolversi della relazione fra i due, dallo stupro iniziale, è ricostruito attraverso una serie di efficaci flashback che, soprattutto nella seconda parte del film, si intrecciano con effetti a volte insoliti col presente del racconto: come quando il ricordo di Ozaki del drammatico stupro di gruppo è interrotto per mostrare il giornalista Watanabe che si aggira - nell’adesso della storia - proprio nei luoghi in cui tale stupro avvenne. Non solo, ma ad un certo punto sembra che lo stesso Watanabe senta le urla della vittima provenienti dal passato. Il film stringe così su un livello audiovisivo e spaziotemporale il rapporto fra i due uomini, che costituisce un altro dei suoi aspetti essenziali, a partire da un comune sentimento di dolenza e di rinuncia alla pienezza della vita (entrambi hanno dovuto interrompere quella che sembrava una promettente carriera sportiva, entrambi hanno una vita privata in qualche modo devastata, entrambi sembrano smarriti di fronte alla possibile mancanza di senso dell’esistere umano).
Si è detto che Sayōnara keikoku è un film più di domande che di risposte: lo testimonia la scena finale in cui Watanabe chiede a Ozaki se avrebbe preferito una vita senza lo stupro o una vita senza Kaneko, e questi, incapace di replicare, non può fare altro che guardare il suo interlocutore, in uno dei più intensi e disperati sguardi in macchina del cinema giapponese contemporaneo. [Dario Tomasi]
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